Mai giudicare un uomo dai suoi mocassini: SUEDE – Autofiction

Questa, nonostante tutto, nonostante non lo sembri affatto, è una storia rock. La prima volta che ho avuto a che fare con Brett Anderson non è stato entusiasmante, è stato col video e coi falsetti di un brano che ancora non sopporto. Era She’s in Fashion. E il titolo dice già molto. Ero un adolescente che cercava autenticità e marcio nella musica hardcore e grunge e l’estetica di quel video semplicemente mi urtava. Con tutto quell’immaginario che ricollegavo a mocassini, pantaloni cachi, golfino legato sulle spalle, vanità, soldi, moda. Nemmeno immaginavo che n-mila anni dopo avrei dovuto fare i conti con la realtà miserabile (quella mainstream) di una città come Milano, che se gratti il glitter trovi ruggine, disperazione, depressione e dipendenza. Ma in superficie tutto ok, mi raccomando. Calzini arcobaleno e via. All’epoca bastava poco per mettermi a disagio. E poi i falsetti, l’elettronica ammiccante. Con quel biglietto da visita, io dai Suede mi sono tenuto lontano per decenni.

C’è voluta la pazienza di un amico vero, e musicofilo vero, che sapeva che avrei prima o poi preso coscienza della dimensione chitarristica della band di Londra. C’è voluta la sua pazienza, qualche singolo turgido nel recente passato (tipo il “no future” di No Tomorrow) e un live illuminante al Fabrique di Milano. Era il 2018 e, anche se metà almeno del repertorio era composto di barocchismi, non è stata solo la componente glam e chitarristica a sorprendermi, quanto piuttosto l’attitudine vera di Anderson e soci. Che hanno suonato, sudato, abbracciato, coinvolto, mai come una stella su un palco (no, they don’t wanna to be adored). Solo una band di persone semplici, casualmente dall’altro lato del microfono. No, le cose non stanno così, io non vivo di musica, loro (spero) sì. Però niente separazione, approccio diretto, piuttosto, quasi punk. Ovvero niente di quello che mi sarei atteso.

Quando poi si cominciava a parlare del nuovo disco in uscita, Autofiction, girava proprio questa parola, punk. Sarebbe stato il loro disco punk. Chiaro, andava presa con le molle, una voce così. Ma le prime anticipazioni, centellinate nelle settimane precedenti, sembravano andare per davvero in quella direzione. Tutte concentrate nella prima parte del disco, quella dura, a tratti oscura, urgente. Pure quando si commemora un genitore scomparso e l’adolescenza abbandonata ormai 40 anni fa, in due brani magnifici ed a loro modo epici come She Still Leads Me On e 15 Again, ovvero i primi due singoli usciti. La bomba che ancora non conoscevamo era la drammatica Personality Disorder, che nel titolo richiama New York Dolls e Joy Division, mentre nella musica Cult, Banshees, Cramps. Tutta roba buona, primissima scelta. Ecco, un pezzo così, tenebroso, spigoloso, gotico, post punk e in fondo death rock, mai me lo sarei atteso dallo stesso Anderson che conoscevo in adolescenza. Così come That Boy On the Stage, più in là nella scaletta. Ve lo dico senza timore di smentita: state aspettando il nuovo disco dei Grave Pleasures pregando che ripeta il miracolo dei Beastmilk? Bene, questi ultimi due brani che ho menzionato funzionano egregiamente come aperitivo per ingannare l’attesa.

Poi, sono onesto, della melassa c’è, facendo capolino soprattutto da metà disco. Fa parte del gioco, lo sapevamo. Se non la reggete è chiaro che non possa spingermi troppo a consigliarvi l’ascolto. Basta che poi non vi culliate abbracciando il cuscino e ascoltando un’improbabile ballata goth-power-sanremetal di quelle spacciate da qualcun altro. Autofiction poi regala ancora comunque dei colpi di coda, come in Shadow Self, con una struttura degna dei Sound e delle venature evanescenti come quelle che un geniale Rikk Agnew donava ai primi Christian Death. Sto forse esagerando?

Ora, abbiamo detto che per essere un disco di un’icona, in fin dei conti, pop, questo Autofiction è un bagliore nero insperato, zeppo di chitarre e uggiosità. Abbiamo detto che non me lo aspettavo, che mi ha preso in contropiede. Ma l’errore di valutazione era solo mio. Sicuro, i Suede hanno tentato in passato il colpo grosso, il successo degli stadi e dei rotocalchi, non raggiungendolo mai pienamente, all’ombra di Stone Roses e Oasis. Ma sono stati pur sempre una band da heavy rotation. Oggi però Anderson avrebbe potuto dare una piega diversa al suo percorso. Piuttosto che mettersi in gioco con un disco di chitarre, testandone dal vivo i pezzi, presentandosi sotto mentite spoglie in un piccolo club davanti a un pubblico ridotto e lontano dieci centimetri dal palco, avrebbe potuto fare altro. Godersi uno stato di rock star eterna offerto dalle dinamiche dei media contemporanei, che regalano una nicchia o un trono a chiunque. O chiudersi in un cottage di campagna con la webcam sempre accesa e uscirne solo per un concerto suonato per difendere il miserabile “diritto” di andare in giro a massacrare volpi con cani, cavalli e fucili. Non so nulla delle opinioni di Anderson, ci sta che differiscano dalle mie. Ma il punto è che a 55 anni circa ha deciso coi suoi compagni di attaccare i jack agli ampli (che sfrigolano proprio a inizio disco) e di suonare musica fresca, urgente, comunicativa, con l’energia che manca persino agli esordienti. Io volevo rincorrere l’Azzeccagarbugli nella sua lodevole iniziativa di dare notizia di quanto di buono esca dalle nuove leve indie/pop/rock/post/punk. Qualche tempo fa volevo parlarvi dell’esordio degli australiani Johnny Hunter che promettevano faville Oi/glam, ma poi questi hanno inserito qualche scivolone alla Phil Collins di troppo in Want perché mi sentissi a mio agio a parlarvene. Stiamo quindi al gioco degli Suede, che come dicevo poche settimane fa si sono presentati di segreto su un palco nascondendosi dietro al nome di Crushed Kid, sedicente band emergente. Stiamo al loro gioco e riconosciamo, quindi, che il titolo di esordio indie rock (indipendente, sì) dell’anno, per ora spetta ai Suede. (Lorenzo Centini)

One comment

  • Lì vidi nel 1994 all’uscita del loro secondo Lp. Gruppo di apertura i Manic Street Preachers,
    prima che sparisse James Edwards. Concerto stravinto dai Gallesi. Comunque i Suede
    fecero un ottimo concerto. Feci due Crowd surfing, in una serata dove erano tutti immobilizzati.
    Il primo andò alla grande, visto che per atterrare direttamente sul palco , arrivo il braccio bionico di Brett Anderson, che al polso aveva un Rolex professionale. Aveva la mano liscia, mi fece un sorriso….Mi tuffai con gentilezza sul pubblico, per non turbare l’atmosfera. Il secondo andò molto male, visto che mi ribaltai all’indietro, in un scena abbastanza emozionante. “The Next Life” rimane il loro pezzo da Funerale perfetto..

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