La finestra sul porcile: DAHMER

Una serie televisiva su Jeffrey Dahmer si presenta come un buon motivo per annientare, nella mia memoria, il noiosissimo film di David Jacobson uscito una ventina d’anni fa, il cui protagonista era Jeremy Renner e non uno scemo qualunque. Credo, inoltre, che certe storie si prestino più al formato televisivo che non a quello cinematografico. Un miracolo che sia andata bene con Ted Bundy interpretato da Zac Efron: lì seppero gestir bene una storia complessa guardandola da un punto di vista ridotto, ossia quello delle sue donne. In una serie televisiva hai oltretutto il modo d’ampliare le vedute, cosa che con Jacobson per forza di cose non accadde allorché ci si concentrò sulla sessualità del protagonista e su un numero ridotto dei suoi omicidi. La serie su Dahmer invece è particolarmente riuscita, per l’incredibile bravura del protagonista (Evan Peters di American Horror Story) e per una serie d’altri motivi che con molto piacere vi elencherò.
Partiamo da Peters. La sua ottima prova attoriale non colpisce con immediatezza, ma si conferma episodio dopo episodio. Inoltre il personaggio è gestito con efficacia, in quanto è tenuto un po’ al centro e un po’ al margine della storia, come in uno slasher con ombre sinistre e figure sfocate nei corridoi che passano di fronte agli spioncini delle porte. A seconda del periodo storico narrato, Dahmer è raffigurato in gioventù, in pubertà o nel pieno dei suoi delitti; oppure come l’estraneo che ha straziato la vita delle decine di famiglie ora assolute protagoniste del format. Un po’ come nella miniserie Rai che ci parlò del Mostro spostando i riflettori sui genitori della Pia Rontini: qui accade lo stesso, ma con un’inversione di rotta prevedibilmente situata oltre la metà del tempo complessivo. Tenere tutto sui binari degli omicidi sino all’arresto e all’epilogo da detenuto ci avrebbe stancato a morte, ed è corretto dedicare un plauso a Ryan Murphy per averla gestita in codesto modo.
Ryan Murphy. L’uomo dietro American Horror Story (l’altra mente ha il nome di Brad Falchuk) è uno specialista nell’impantanarsi nelle sottotrame, ce lo dimostrò sin dalla prima stagione Murder House. Qui non commette un mezzo errore sotto quel punto di vista, nonostante si conceda il lusso di tributare Gacy e Gein con un paio di segmenti dal minutaggio fortunatamente ridotto. Riuscitissimo quello sull’esecuzione di Gacy in contrapposizione al battesimo di Dahmer, una scena che ripete l’elezione della testimone Glenda Cleveland quale cittadina dell’anno vissuta di pari passo alla premiazione dei due poliziotti che riportarono un minorenne a casa di Dahmer dopo che questi era riuscito a fuggire mezzo lobotomizzato dall’appartamento 213 del condominio Oxford.
I registi. Il pacchetto dietro la cinepresa è ad ampio raggio e va dal Carl Franklin di Mindhunter a Jennifer Lynch, la figlia di David, che da sola ne dirige quattro. Il risultato è una visione alla David Fincher, con toni caldi desaturati e lunghe scene di tensione che, culminanti in omicidi oppure in un bel niente, sono sparpagliate un po’ ovunque lungo le dieci puntate di Dahmer. Il capolavoro assoluto è probabilmente la settima puntata, diretta dalla Lynch, con lo sfratto di Jeffrey dal 213 per la “puzza” di cui i vicini si erano a lungo lamentati e con quel panino farcito che lui intima ripetute volte di mangiare alla vicina Glenda. Siamo ai livelli della scena nel seminterrato di Zodiac, né più né meno. La puntata più stancante è la numero sei, ove Netflix ha trovato sufficiente terreno fertile da rifare la stronzata che fa sempre.
In corso di riunione si sono snocciolati i nomi dei diciassette ragazzi con certezza massacrati da Dahmer. A un certo punto quelli di Netflix si debbono esser soffermati su questo Tony Hughes, che era di colore, omosessuale e sordomuto. Ai dirigenti e agli sceneggiatori di Netflix, tutti presi dall’inclusività a tutti i costi, debbono essere esplosi i bulbi oculari, tanto da dedicargli una puntata intera in cui si è sottoposti a decine di minuti di linguaggio dei segni e frasi scritte su un taccuino con l’ossessività dei riff di Transilvanian Hunger. Personalmente, e non perché il soggetto fosse di colore, omosessuale e sordomuto, ho vissuto malissimo quella cinquantina di minuti di girato perché non passavano mai. Solo per quello. E vi auguro un destino diverso dal mio.
Ho poi goduto quando la serie si è spostata dal focalizzarsi sul riuscitissimo protagonista a concentrarsi su ciò che nel mondo accadeva in risposta alla sua brutalità. Il padre, per esempio, è un personaggio che a quel punto acquista molto fascino, aiutato peraltro dal doppiaggio nostrano che gli riserva l’ottimo e intramontabile (oltre che poco chiacchierato) Stefano De Sando. Cioè la voce di Bryan Cranston in Breaking Bad e quella delle versioni italiane di attori come John Lithgow, Sam Neill e molti altri ancora. A entrambi i genitori di Jeffrey Dahmer sono attribuite colpe (le tonnellate di pasticche mentre lei era in gravidanza da una parte, il supporto delle passioni di un bambino disturbato dall’altra) a cui potrete scegliere quale peso riservare. Non solo: l’ambiguità dei due passa per i momenti di abbandono e per le scelte dietro la scrittura del libro di Lionel, da lui giustificata in una maniera cui nessuno, presumibilmente, crederà. Sebbene il suo A Father’s Story, inizialmente un flop, sia ad oggi reperibile nelle librerie così come su Amazon.
A proposito di personaggi, è da menzionare nuovamente Glenda Cleveland. Lei è il classico personaggio immaginario inserito negli script per raccontare le cose come cazzo pare a me. In realtà è una distorsione di Pamela Bass, reale vicina di Dahmer alloggiata nella stanza 215 finché l’edificio non fu demolito dai politici di Milwaukee. E il sopracitato panino farcito la Bass se lo mangiò davvero, oltre ad aver sempre e comunque speso pubbliche parole gentili nei riguardi del simpatico vicino di casa le cui mura emanavano, effettivamente, un fetore micidiale. Diciamo che mettere le cose in questo senso, per Netflix, ha significato rappresentare nella signora Cleveland non una personalità specifica ma l’insieme dei vicini, le persone che in prima persona vissero gli orrori della vicenda e, lo capirete poi, il grido di una Milwaukee ferita, a stento tutelata, anzi derisa. Glenda Cleveland è un collettivo, non un personaggio; Glenda Cleveland è pure un pretesto per prendere a mitragliate la polizia locale, che in quegli anni non ne azzeccò una.
Una serie, questa, che funge da prequel, da focus sugli omicidi e da focus mediatico e burocratico alla Zodiac o alla Mindhunter, finendo con l’accontentare un po’ chiunque senza essere, fuorché su certi aspetti “sociali”, mai eccessivamente paracula, nonostante ci si trovi in pieno 2022, culmine storico del paraculismo nella settima arte o di ciò che ne rimane.
È stato tratto il meglio possibile da una storia che poteva assicurare un numero tutt’altro che illimitato di plot twist o di reali punti di interesse. Con un personaggio focale distante anni luce dalla brillantezza sciorinata da un Bundy una volta avuto accesso ai tribunali. Ed è stato finalmente disegnato un criminale disagiato nella maniera più disturbante possibile, con la furbizia di non scadere negli eccessi di gore a tutela di garantire al titolo i gradini più elevati delle classifiche. Qualche fanatico dell’horror storcerà il naso, ma su Netflix è una settimana che lo leggo in cima.
Spinto da un pilota un po’ lento ma tutto sommato buono, Dahmer guadagna forza e punti episodio dopo episodio ed è di gran lunga la miglior cosa che ho avuto modo di guardare su Netflix negli ultimissimi tempi. (Marco Belardi)
Non l ho ancora vista, comunque non può essere paragonabile allo speciale uscito su metal shock credo del marzo 2002, gran servizio. Non ricordo chi curasse la rubrica dei serial killer, era proprio ben fatta
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Sto a metà della serie, ed a parte una certa lentezza di fondo, mi sembra un ottimo prodotto. Si è evitato fortunatamente di indugiare sugli aspetti più cruenti della vicenda, preferendo un’analisi psicologica stranamente piuttosto approfondita e nel quale vengono messi in risalto i pessimi rapporti genitoriali con i quali il Jeff bambino ha dovuto convivere. Ottima la prova attoriale di Peters, che si gusta appieno in lingua originale, dove si vede parlare spesso con un filo di voce. Vediamo come va a finire ma per il momento sono soddisfatto.
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Sono d’accordo con le forzature inclusiviste e il prossimo olocausto frocista pero’ c’e’ anche il caso del giovane ragazzo asiatico che Dahmer ammanetta , il giovane riesce a divoncolarsi e scappare in qualche modo , si trova ora a correre per strada mezzo nudo in manette , un vicino chiama la pula , i volenterosi tutori dell’ordine acchiappano il giovane che fra l’altro e’ mezzo stordito dalla qualsiasi porcheria datagli da Dahmer , il quale nel frattempo e’ sceso per strada per ricatturare la preda e raggiunge gli sbirri e il ragazzo e in qualche modo convince gli agenti che il giovane e’ un suo amante e stavano semplicemente giocando . Gli sbirri riconsegnano il ragazzo a Dahmer (!!!) , vanno pure nell’appartamento e non notano il cadavere di un altro ragazzo sotto il letto , ne fanno troppo caso al bidone da millemila litri che Dahmer ha in camera.
Dopodiche’ il giovane asiatico viene prontamente ucciso / violentato / mangiato ( non ricordo lo avevo visto anni fa quando ero in fissa coi serial killer ).
Gli agenti richiamano la centrale dicendo pressapoco “Abbiamo consegnato il giovane orientale al suo amante” , orientals e’ considerato un termine desueto e vagamente razzista come buck o blue lip per i neri.
Perlomeno dopo la scoperta delle attivita’ di Dahmer i due poliziotti in questione sono stati licenziati .
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