BETTER CALL SAUL, la redenzione di Carlo Conti

Uno spin-off è un valido motivo per triturare e buttare ai maiali quel che di buono, o leggendario, hai appena finito di celebrare. Nella fattispecie Breaking Bad, una storia vissuta così intensamente da sperare di poterla protrarre un altro po’, finché non ti rendi conto che è assurdo che Hank non capisca e che Walt se ne stia ancora in piedi. A posteriori anche la fanbase più accanita, Dream Theater e Tool esclusi, tira le somme e capisce che allungare il brodo fa solamente danni. E gli spin-off nascono per allungare il brodo, spesso per velleità commerciali, più di rado in virtù di un ragionamento programmato e di natura strettamente artistica.

C’è da dire che abbiamo appena osservato l’epilogo di uno spin-off che generalmente è piaciuto a tutti. Ottimo per molti, miracoloso per alcuni, lo show AMC è giunto al termine e tirarlo ulteriormente per le lunghe non avrebbe ucciso la serie; avrebbe ucciso noi.

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Una serie televisiva tutta incentrata su Saul Goodman suonava pericolosa. L’avvocato di Walter White, pensateci, era una spalla e non un personaggio primario. Ci spostiamo perciò su un terreno avulso persino da quello di El Camino. I miei concittadini ricorderanno Carlo Conti nei vecchi varietà fiorentini: la figura della spalla è assolutamente necessaria a far funzionare al meglio i personaggi che t’interessano davvero, ma non lasciate Conti da solo per un’ora e mezzo con un microfono, o saranno dolori, e non commettete l’errore di confondere il “presentatore” col concetto di “spalla“. Quest’ultima, se è ben strutturata come lo fu Goodman, renderà brillanti i dialoghi, le scene, le situazioni. Una buona spalla è come l’olio extravergine d’oliva, va dappertutto. Da solo, Saul Goodman avevo sincera paura che inducesse a correre al gabinetto e basta, tipo un beverone d’olio.

Così non è stato, nonostante la storia incentrata su avvocati, legge e dinamiche interne del mestiere – un vero porno per l’Azzeccagarbugli – per tutti gli altri potenzialmente assomigliasse alle seconde metà degli episodi di Law & Order in cui si tirano le somme e ci si addormenta sul divano.

Gilligan è stato bravissimo in due cose: far funzionare questa lunga storia sugli avvocati e ritirar fuori tutte le vecchie questioni antecedenti Breaking Bad ampliando con esse vita e miracoli (per la morte dovremo attendere Walter White) di figure principe come Gus Fring, Mike e i Salamanca. In un certo senso è un bene che Goodman sovente si defili e lasci tutta la scena a questi ultimi, senza neppure fungere da spalla. Si tira proprio fuori, a riprova di quanto Gilligan avesse compreso le conseguenze di una sua implicazione a forza in ciascun segmento della storia.

Inoltre, aggiungere altro sui Salamanca poteva risultare la classica mossa a doppio taglio che trasforma uno spin-off in quel genere di prodotto che rimbalzerà fango e merda anche addosso alla serie madre. E invece no.

Nel corso di questa recensione non parlerò di Better Call Saul in generale, ma del suo finale nello specifico. Ci tengo tuttavia a precisare che, se gli episodi superflui di Breaking Bad esistevano eccome (quello sulla mosca in laboratorio l’esempio lampante), in Better Call Saul li ritroviamo sparpagliati un po’ in tutte le sue stagioni, finalizzati a soddisfare i bisogni estetici ai limiti del pornografico dei creatori dell’universo in oggetto. E questa sesta mandata ha alternato contenuti molto forti, e che nulla hanno da invidiare alla serie madre, ad altri forzatissimi.

È mia teoria che Better Call Saul dovesse maneggiare tre temi portanti: il rapporto di Jimmy/Saul con Kim, quello con gli antagonisti Chuck e Howard (a patto che potessero essere definiti tali – e una volta ultimata la serie rivedrete molto la loro posizione) e le vicende riguardanti i Salamanca. Soprattutto questi ultimi, ai fini della sopravvivenza del format, perché, se Saul è l’olio, la spalla che tutto o quasi sa accompagnare finché Gilligan non la mette sapientemente in disparte, allora i Salamanca sono il sale.

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Gilligan ha affrontato abilmente tutte queste parti, tirando semmai un po’ per le lunghe la gioventù lavorativa di Jimmy presso le grosse strutture legali che lo avevano assunto, sopportato o licenziato. La prima stagione, diciamocelo, non era poi così brillante, anche se ben ci si sforzava di guardarla in virtù del manierismo impeccabile di Gilligan nel riprendere, fotografare, apparecchiare la tavola con le pedine che poi sarebbero state fondamentali. La stessa lentezza iniziale di Breaking Bad senza la premessa avvincente del professore di chimica ammalato che la butterà in caciara.

L’ultima stagione dello spin-off ha lo stesso problema che abbiamo vissuto in suo principio. Finito di raccontare il tema portante, che è Lalo Salamanca, è come se la sesta stagione fosse finita alla nona puntata. Però mancava ancora un casino di tempo, che ci chiedevamo dubbiosi come sarà impiegato. Soprattutto, ci domandavamo come potesse essere replicato il ritmo serrato degli ultimi episodi con Lalo. Semplice: non sarà replicato, si cambia volutamente registro. Di lì in poi Better Call Saul si dedica giusto a mettere a posto qualche coccio: non c’è più storia ma una monumentale dedica a quella fanbase che sul gran finale si è prodigata in orgasmi, squirt e quant’altro.

I problemi a mio avviso nascono proprio lì, dove finisce Lalo. La telefonatissima comparsa di Walter e Jesse avviene lungo tre scene in flashback del tutto trascurabili. Non credo occorresse riportare quei due sullo schermo per aggiungere sale alla vicenda; occorreva, casomai, farlo con un escamotage degno della genialità risaputa dell’autore. Tutta la parte in bianco e nero sul Gene direttore alla Cinnabon è altrettanto infima dal punto di vista dell’interesse. In essa salvo il rapporto fra Gene e la madre dell’amico truffatore: il resto è inconsistente, dal bianco e nero malamente impostato sugli inguardabili mezzitoni ai furtarelli al centro commerciale e poi nelle case dei ricconcelli adescati, non è che un lento apparecchiare un’altra tavola per favorire il climax: la ricomparsa dolceamara di Kim e di quel che seguirà.

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Francamente trovo inevitabile che Better Call Saul sia finito in quel modo, non avrebbe avuto alcun senso far trionfare ancora il lato negativo di Saul. Jimmy McGill è un buono e su quei binari è stato tenuto, altrimenti avremmo replicato il rapido decadere di Walt verso l’inevitabilità del suo male interno, della sua ambizione, delle conseguenze indirette che hanno distrutto tutto attorno a lui e oltre (inclusi gli aerei di linea, se ricordate). Better Call Saul doveva finire diversamente, più sobrio, e così è stato. Better Call Saul non è che la versione più sobria e pacata di Breaking Bad, con picchi di ricercata tensione e violenza offerti dalla presenza di Fring e dei Salamanca i quali ci hanno permesso di rivivere la serie madre. Punto. E per fortuna è finito.

La seconda parte della sua sesta stagione, sarò sincero, è stata a tratti un manifesto dedicato ai fan e a tratti un supplizio. Tirando le somme, è stata una serie televisiva bellissima cui Netflix deve il culo – in quanto ne detiene l’esclusiva, essendo di fatto un prodotto Sony – uno di quei titoli che ancora ti lasciano addosso la speranza che il cinema non sia una semplice questione di investimenti, costi, fretta e ancora altra fretta. Ben venga la proverbiale lentezza tipica di Vince Gilligan, ben vengano i suoi passaggi volutamente a vuoto e autocitazionisti, ben vengano alcuni cameo regalati senza nemmeno sapere come farlo: è stata una magnifica esperienza, lo è stata anche quando se ne stava sul filo del rasoio e a momenti mi spaccava le palle. (Marco Belardi)

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