Avere vent’anni: ONDSKAPT – Slave under his immortal will

Il debutto consegnato alla storia dagli svedesi Ondskapt, oggi esponenti di spicco della scena con un seguito consistente di fan devoti, è uscito in formato vinile 10 pollici per Selbstmord Services, l’etichetta di Kvarforth degli Shining. Sono due pezzi abbastanza lunghi, spesso cadenzati, senza dubbio molto oscuri, frequentemente impostati su riff arpeggiati e strutturati in modo che, ad un certo punto, in entrambi i brani viene staccata la spina e tolta la distorsione alle chitarre, salvo poi ricominciare con il classico suono zanzaroso e terminare con effetti tenebrosi. La voce sembra arrivare da mondi sotterranei vicini al nulla più assoluto, lontani dalla luce e da qualunque cosa possa sembrare vivibile, la sezione ritmica è cupa, impastata e suonata con mestiere, anche se l’evidenza di trovarsi al cospetto di un’opera prima emerge prepotente. La produzione è minimale, la scelta dei suoni grezza e poco rifinita, gli arrangiamenti quasi inesistenti. Due pezzi sulla stessa falsariga, molto simili l’un l’altro: su questo debutto ci sarebbe poco o nient’altro da aggiungere.

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Tuttavia questo breve riassunto serve a precisare che gli Ondskapt più noti al grande pubblico sono decisamente diversi da quanto si può ascoltare in Slave Under his Immortal Will, episodio quasi a sé stante nella loro non certo sterminata discografia. La musica che trovate qui paga decisamente pegno ai primi Shining, magari anche qualcosina ai primi Ofermod, ma del religious black metal per il quale sono diventati famosi in seguito in pratica non c’è traccia. Certo, è un black metal molto occulto, molto tetro, assai votato a candidarsi come possibile ideale colonna sonora di rituali proibiti glorificanti il Male. Ma è parecchio distante da quello che hanno poi scritto in seguito, e viene da chiedersi come abbiano fatto a diventare delle celebrità grazie a questo EP di un quarto d’ora che non aveva niente di originale, senza nessuna particolare dote di aggressività inconsulta che potesse far saltare per aria lo stereo dell’ascoltatore anche più esaltato, nessun passaggio degno di particolare nota o meritevole di chissà quale devozione. Un disco come tanti, come ne uscivano tanti e che non vale i prezzi costantemente richiesti per la prima stampa sin dalla sua uscita vent’anni fa, stampa diventata rara in men che non si dica per via delle sole trecento copie stampate eppure, ancora oggi, piuttosto ricercata dai collezionisti, neanche fosse un disco indispensabile per ogni discoteca che ambisca a definirsi completa. Nel caso vogliate procurarvelo, va detto che Osmose lo ha ristampato da poco in vinile colorato ed in CD, e si trova a prezzi sensibilmente più abbordabili.

Già il successivo Draco Sit Mihi Dux è decisamente migliore e più professionale sotto tutti i punti di vista, caratteristica che poi è diventata abituale al punto che questo EP sembra a malapena suonato dalla band celebre e celebrata che ha inciso quattro album di spessore ben più marcato. La loro musica è col tempo diventata più contorta e complicata, acida, straniante e dissonante, e di queste caratteristiche in Slave Under his Immortal Will non c’è quasi traccia. Un disco discreto, nella media, ma le cose memorabili o indispensabili sono altre. (Griffar)

One comment

  • Ma è possibile che se non scrivete slider nei tag sti articoli uno li trova col cazzo?
    Porco dio. Dateve ‘na svejata che fa caldo, Antò. Daje.

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