Dischi molto brevi per un amore lungo lungo

La mia passione per il rock è esplosa proprio con un EP, un dischetto con poca musica dentro che a volte riesce a farti tanta rabbia, perché suona così bene che avresti preteso un intero album tutto su quelle coordinate. E qualche volta i full length che lo precedono e seguono non sono affatto pazzeschi come quel clamoroso bocconcino che hai appena fatto partire. L’origine di questo tipo di uscite è varia: togliersi dai coglioni una casa discografica verso la quale hai degli incombenti obblighi contrattuali, pubblicare del materiale che non aveva trovato posto altrove, far risaltare al meglio ciò che sarebbe potuto uscire come singolo in un banale tre tracce contenente la medesima traccia originale, il radio-edit e infine il remix di Maurizio Molella. L’EP – tranne nell’infelice caso dei Metallica di Beyond Magnetic – diede un senso a molte situazioni scomode, e finì col riempire alcuni vuoti in periodi nei quali certi gruppi pretendevano di mantenere un ritmo di attività rigoroso: è così che uscirono fuori dei veri e propri capolavori, e definirli uscite minori sarebbe offendere.

Partì tutto con Jar Of Flies degli Alice In Chains, e per la precisione con il pezzo Rotten Apple. Mi ero appassionato da un annetto ai Soundgarden di un paio d’album – indovinate quali! – ed a qualsiasi cosa che portasse in bella vista il nome dei Nirvana, ma fu Jar Of Flies a farmi scattare la cosiddetta scintilla. Quella che, solo un anno più tardi, mi avrebbe reso un depravato a caccia di riviste metal da setacciare per individuare il comprabile. A dirla tutta, per essere un EP Jar Of Flies era una roba piuttosto ingrombrante: un sacco di tracce, buona parte delle quali diventò un singolo di successo nel minor tempo possibile, come nel caso di Nutshell.

Andando a ritroso, o meglio addentrandoci in territori strettamente metallari, negli anni Ottanta erano già usciti un sacco di EP molto importanti per la formazione di alcune band o generi musicali. Partirò citando i miei due gruppi preferiti, primi dei quali i Celtic Frost sotto forma di Hellhammer, che posti nell’anno 1984 risultarono una botta di adrenalina assai difficile da giustificare: il metal estremo anticipato di tre o quattro anni, The Third Of The Storms in una partenza velocissima, Massacra – a seguire – ancor più sparata della precedente. È un peccato averlo scoperto dopo essere passato per Deathcrush o Pleasure To Kill: certe volte vorresti essere partito proprio da lì, senza dover riguardare indietro per capire come determinati gruppi siano arrivati a tanto. Ecco come un Euronymous era arrivato a tanto, sul fronte strettamente musicale.

Archiviato il fondamentale Apocalyptic Raids si passa a Haunting the Chapel: esso non definì tanto un genere quanto il suono stesso degli Slayer, che di colpo si ripresentarono al pubblico senza consistere più nello speed metal canonico, ma ultra aggressivo, di Show No Mercy. Per quello che mi riguarda Tom Araya – a ridosso di questo EP e di Hell Awaits – venne a trovarsi esattamente all’apice: con addosso Cronos dal primo all’ultimo urlo, ma la cattiveria che riusciva a vomitare non la eguagliò mai più, incluso quel titolo del 1986 che farà capitolo a parte nella storia intera dell’heavy metal. Chemical Warfare sono gli Slayer già definiti al novantanove per cento: Dave Lombardo in doppia cassa, chitarre taglienti come rasoi e la struttura delle canzoni sufficientemente elaborata per poter capire perché, un solo anno dopo, si sarebbe passati alle sette tracce allungate d’arrangiamenti di Hell Awaits. Chemical Warfare è il mio pezzo preferito della band americana insieme a At Dawn They Sleep e War Ensemble, e là dentro ci sarà spazio anche per un altro classico intramontabile a titolo Captor of Sin. Come non amare Haunting the Chapel?

A metal estremo già formato e sdoganato, mi vengono in mente due EP che nel decennio successivo avrebbero cambiato pensiero e punti di riferimento a moltissimi appassionati del metallo. Uno è dei Cradle of Filth e corrisponde al nome di Vempire or Dark Fairytales In Phallustein. Anche in questo caso la sensazione di distacco dal precedente lavoro appare esorbitante, ed il materiale al suo interno è talmente rigoglioso da renderlo difficilmente classificabile come un mini. In compenso la prima traccia è una strumentale che si crogiola per tutto il tempo sul riff più orientato al black metal mai scritto dagli inglesi – Funeral in Carpathia esclusa – e ci ripresentano The Forest Whispers my Name sotto una nuova ed apprezzabile veste. Il capolavoro dell’album sarà senza dubbio Queen of Winter, Throned, uno di quei brani che se ti va bene scriverai una sola volta in tutta la tua carriera. Non uscirà più fuori una roba così, nemmeno nel caso di Malice Through the Looking Glass o Cruelty Brought Thee Orchids.
L’altro aspetto che mi fa preferire l’EP dei Cradle of Filth agli altri loro album è la sua produzione: impeccabile, con un Nicholas Barker in stato di grazia e che pochi anni più tardi ebbe da fare i conti con gli ignobili suoni di batteria di Cruelty and the Beast. Francamente non riesco a individuare un difetto qua dentro, ed a voler essere pignoli, forse, Dusk and Her Embrace riuscirà ad essere talmente oscuro da mettersi alle spalle perfino una chicca come questa. Giorni di gloria per i Cradle of Filth, giusto un attimo prima del loro boom commerciale, delle line-up che esplodevano come gli stuntman di Predator nel villaggio assaltato da Dutch, dei Midian e del rinnovato make-up non più sfacciatamente vampiresco.

L’altro titolo, con il quale chiudo, è Despise the Sun dei Suffocation. Senza voler togliere niente a Pierced from Within, che è di fatto un capolavoro, quelli di Despise The Sun sono un gruppo all’apice per ferocia e ispirazione. Fatta eccezione per la riproposizione di Catatonia, il minicd è una di quelle cose da spararsi d’un fiato subito dopo avere aperto la bolletta dell’elettricità o oscenità del genere. Perfetto da cima a fondo, più lineare rispetto alle fasi strutturate di Pierced From Within, con una title-track semplicemente da urlo ed una produzione capace di rasentare il concetto stesso di perfezione. Cupa, aggressiva, sporca il giusto. Fatico a restare sei mesi senza rimettere su Despise The Sun dei Suffocation, una delle migliori espressioni di death metal americano negli anni in cui il death metal americano veniva clinicamente dichiarato cadavere. (Marco Belardi)

 

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