Hello darkness my old friend: PORTAL – Ion

I Portal sono la dimostrazione che, a volte, anche in un genere “statico” e stilisticamente introiettato su se stesso come il death metal si possono ottenere ottimi risultati sperimentando. Gli australiani sono, ad oggi, una delle poche band nel vastissimo panorama death a godere di una propria personalità ben definita, contornata da dei tratti che li rendono inconfondibili con qualsiasi altra realtà, passata o presente che sia. Sarà l’altissima concentrazione di animali e piante ad elevato tasso di odio anti-umano presenti in quella precisa zona dell’emisfero sud del globo, fatto sta che ai Portal girano i coglioni. E gli girano in un modo tutto particolare: non è quell’incazzatura ferale tipica del death metal, è più una sorta di superamento dei limiti stessi dell’odio e della misantropia, una forma mentis nera come la pece condita da una spruzzata di occultismo che strizza l’occhio a Lovecraft e dal desiderio di precipitare l’intero universo in una melma caotica e furente.

Ammetto di averci messo del tempo per comprendere appieno i Portal (sempre ammesso che una band del genere possa essere compresa). Precisamente 5 album, partendo dal debut Seepia fino a quest’ultimo Ion. Non posso affermare con certezza assoluta di essere riuscito ad inquadrarli appieno; tutt’ora dopo aver finito di ascoltare un loro album mi chiedo come cazzo ci sia finito a sentirmi ‘sta roba. Puntualmente però, magari a distanza di giorni, torno ad ascoltarli.

C’è qualcosa di inesplicabile nei Portal, un fascino malato e contorto: canzoni che non hanno né capo né coda, stop and go che sembrano piazzati lì in post produzione, chitarre dissonanti, drumming schizofrenico (nel senso che proprio non si capisce con che logica siano stati scritti i pattern di batteria, ammesso che ce ne sia una) e vocals che, paradossalmente, risultano l’elemento più “normale” in tutto l’aggregato sonoro che i Portal ci servono dal 2003 ad oggi. Una cosa però l’ho capita: questi sono dischi che vanno ascoltati dall’inizio alla fine, senza soste, senza skippare nessuna traccia e lasciandosi trasportare, per quanto possibile. Ogni tanto vi partirà un accenno di headbanging, seguito da invocazioni ai Grandi Antichi, e alla fine vi ritroverete a fissare un punto imprecisato della parete chiedendovi come ci siate finiti in quello stato. E la risposta è, come sempre, Shub Niggurath. (Luca Bonetta)

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