Superlativi irregolari: OPETH – Heritage (Roadrunner)
Gli Opeth che si danno al progressive rock! Quanto mi piace, quanto puzza di snob. Delle affermazioni di Åkerfeldt prima della nuova virata ne vogliamo parlare? Altezzose e sprezzanti, una esempio di vanagloria del migliore Marchese Del Grillo. Ma amo la coerenza dimostrata da quest’uomo, uno che alle parole ha fatto corrispondere i fatti. Sotto sotto approvo anche quei suoi modi, sebbene un po’ rozzi – vecchio retaggio della brutallagine appena abbandonata – e non propriamente orientati alla fidelizzazione (come da asperrimo linguaggio aziendale). Un atteggiamento che – per uno che agogna ad un certo intellettualismo chiccoso – andrebbe un attimo ingentilito. Inoltre, trattare così in malo modo coloro (i metallari) che fino ad un minuto prima ti hanno foraggiato di pane comprandosi i tuoi cd mi pare una mossa che denota scarsa prudenza. Come si spiega allora? Scartando l’ipotesi che Mikael sia uno stolto o che si sia fumato il cervello non ne resta che una: si sente molto forte rispetto ad Heritage.
Questo decimo lavoro è sotto tutti gli aspetti un convincente prodotto della scuola progressiva e psichedelica del Regno Unito come Emerson Lake & Palmer, Jethro Tull, King Crimson e Pink Floyd. Come dire: tutto e niente. Ma non solo, volendo essere più ficcanti coi paragoni rispetto alla uberrima nobiltà italiana, i brani pregni di innesti jazz mi ricordano i Dedalus o gli Edgar Allan Poe, quelli rock psichedelici apertamente zeppeliniani gli Osage Tribe (di quel tale chiamato Franco Battiato), e infine gli svarioni complessi mi riportano a certi scleri dei Pholas Dactylus. Chissà se Åkerfeldt e compagnia hanno mai ascoltato o sentito parlare di uno di questi. Ho i miei dubbi, ma chi può dirlo? Forse a conoscerli è Steven Wilson dei Porcupine Tree (al missaggio) che, dopo gli Anathema, va di nuovo a segno. Qualcuno si chiederà se vale la pena tirare in ballo tutti quei nomi illustri, più o meno noti. Io credo di sì e credo lo pensi anche Alex Acuña dei Weather Report, che si è prestato alla batteria su Famine.
Stimo Heritage un ottimo album che non ha assolutamente nulla a che fare col passato (a mio parere rispettabilissimo fino a Damnation, con alti e bassi) degli Opeth, sebbene in quello più recente (Watershed) si scorgano i prodromi della sterzata prog. A piacevole condimento qualche supplemento funk rock – simìllimo a Primus e primi Red Hot – e un indizio di teterrimo folk. Insomma dentro c’è tutto quello che mi piace e che ascolto di recente. Non poteva non convincermi per cui entra nella top ten di fine anno. Per chi non ama il genere Heritage potrebbe risultare cacofonico al pari di un suffisso elativo irregolare. Pensate progressivo. (Charles)
Aggiungerei una forte similitudine tra le atmosfere sospese di Heritage e quelle del primo capolavoro degli italiani Areknamés.
Credo che il motivo per cui l’ultima opera degli Opeth, che ritengo lungamente la migliore della loro carriera, sarà indigesta a molti sia il suo puntare tutto su un’atmosfera che reputo veramente particolare e personale: il “Male” non più rappresentato da una componente furiosa e d’impatto ma dalla sinistra rassegnazione di chi ne viene a contatto. Il Male immenso, pacato e sensuale che non possiamo che ammirare nella nostra impotenza.
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