CHILDREN OF BODOM – Relentless Reckless Forever (Nuclear Blast)

L’esistenza dei Children of Bodom ha smesso di avere senso compiuto più o meno dopo il terzo disco. Succede a molti gruppi, per carità, ma pochissimi sono l’istantanea di un periodo come sono stati loro. Più che altro, più che altri, i COB hanno rappresentato le urgenze di un passaggio generazionale. Una generazione cresciuta quando il metal estremo aveva finito di sparare le sue cartucce migliori e per una questione fisiologica aveva bisogno di istituzionalizzarsi, per così dire normalizzarsi. I Children of Bodom hanno rappresentato il passaggio definitivo del metal estremo dall’underground e dalle ingenue photosession in bianco e nero nei boschi al grande pubblico, alle grandi case discografiche metal, alle copertine delle riviste di settore. In definitiva, i Children of Bodom realizzarono prima di chiunque altro quel sincretismo stilistico necessario al metal estremo per potersi rendere presentabile e accettabile anche a chi prima d’allora non avrebbe mai pensato di appassionarsi ad una band col cantato in screaming e con un retroterra che pescava non solo dagli Stratovarius ma anche dal black e dal death di marca svedese.
Lo scrissi su MS in tempi non sospetti: i Children of Bodom, più che una band, erano un rito di passaggio. E da questa raison d’etre non si sono mai scostati. Impossibilitati a reinventarsi, hanno scelto però di non riciclare sè stessi. Decisione piuttosto saggia, non so quanto cosciente, ma comunque saggia. Tutte le recensioni di riviste, siti e siterelli vari parlano di quanto siano lontani i tempi di Hatebreeder; ciò che per molti è complicato capire, però, è che quei tempi sono lontani non tanto per il minor valore delle canzoni in sè, ma perché quei tempi sono passati, necessariamente e cronologicamente passati. I Children of Bodom hanno fatto scuola ma hanno fatto anche molti figli, più di quanto si possa sospettare. Il metal degli anni 2000 deve loro moltissimo, probabilmente tutto. Senza di loro, senza i loro compromessi, senza il loro reinventare l’underground degli anni novanta, forse il metal estremo stesso sarebbe morto. Perché chi ha iniziato con loro ha poi quasi sempre finito per andare a scoprire le loro stesse radici; e senza questo lavoro di retroingegneria il metal estremo non avrebbe avuto l’appeal che ha avuto dopo, e va da sè che i ragazzini che oggi scoprono e ascoltano un determinato genere formeranno la scena di domani.
Was it worth it?, come recita il singolo dell’album in questione, il loro ottavo? La domanda è malposta. Senza di loro probabilmente ci sarebbe arrivato qualcun altro. Facendo un parallelismo, Bill Gates non è un genio perché ha capito che le icone cliccabili erano più semplici da usare delle stringhe, ma perché ci è arrivato prima di tutti. Ma anche mio nonno, se avesse avuto tre palle, sarebbe stato un flipper. O, come si dice in maniera più poetica, la Storia non si fa con i se e con i ma. Alexi Laiho ci è arrivato prima di tutti, e ricordo ancora le recensioni di Something Wild in cui non si riusciva a spiegare il suono della band se non tramite incroci: immaginate un incrocio tra; pensate al gruppo X che prova a suonare come il gruppo Y; e così via. Ora è tutto più semplice. Ma all’epoca non lo era. Ed è davvero difficile da spiegare questo concetto a chi ha iniziato ad ascoltare metal quando la loro rivoluzione era già stata attuata.
Non è un caso che il terzo loro disco sia targato 2000. I Children of Bodom sono indissolubilmente legati agli anni novanta; o meglio al momento di passaggio delle due decadi. Di sicuro il metal estremo era meglio prima, e quello che è venuto dopo ne è solo un pallido riflesso; ma ciò che i COB hanno rappresentato è stato necessario, fisiologico. Non si fa qui un discorso di merito, ma di necessità. I COB sono stati necessari, molto più di centinaia di altri gruppi migliori di loro ma nonostante tutto più trascurabili.
Relentless Reckless Forever, come tutti i dischi da Hatecrew Deathroll in poi, non c’entra nulla con i primi tre. Finito ciò che era necessario si facesse, Alexi Laiho e compagni hanno deciso di fare uscire ogni tanto un disco sotto il nome Children of Bodom. Ascoltandoli si ha come l’impressione di cinque amici che jammano in un garage e suonano ciò che più gli garba, senza pressioni nè affanni compositivi. Il migliore resta Are You Dead Yet?, tuttora gradevolissimo da rimettere nello stereo. Ma sono tutti più o meno simili, qui si fa un discorso di gusti personali. A volte gli riesce bene, a volte meno. Come per l’appunto succederebbe a cinque amici che si ritrovano in un garage e suonano ciò che più gli garba. Loro sono sempre gli stessi, sono cresciuti e non ascoltano più molto power metal, ma tanto non gli frega nulla di un eventuale pubblico, perché suonano come se un pubblico non ci fosse. Alexander Kuoppala non è più della partita da qualche anno; magari si è fidanzato, o magari ha un lavoro stressante e non ha più molto tempo per suonare: succede, tra amici. A loro quello che suonano garba, come detto. Magari ad altri no, ma loro non danno l’impressione di importarsene molto. Il loro momento è passato, ma quello che hanno creato resisterà per sempre, a prescindere dai loro stessi dischi. E, col senno di poi, non meritavano tutte le brutte parole che in molti, me compreso, gli hanno rivolto. Non era colpa loro se gli Entombed erano migliori di loro. Gli Entombed erano solo un gruppo musicale, i Children of Bodom erano qualcosa di più, erano un segno dei tempi, erano un’urgenza contingente, erano la Storia che reinventava sè stessa dopo essere arrivata a un punto morto. E aver chiuso quel capitolo nel momento esatto in cui quel capitolo doveva essere chiuso è un loro grande merito. Il solo, forse, riconducibile al loro libero arbitrio. (barg)

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