Barnes ha fatto anche cose buone: SIX FEET UNDER – Killing for Revenge

Ogni volta che esce un nuovo disco dei Six Feet Under si scatena il consueto tiro al piccione che vede recensori, commentatori e intellighenzia metallara assortita scagliarsi contro la band di Chris Barnes manco fosse davvero una delle peggiori della storia della musica coi rutti (copyright: le nostre mamme). Così come gli altrettanto insensati consensi di cui godono quei miracolati dei Blood Incantation, si tratta di un meme, ovvero di un postulato che è diventato assioma grazie al tribalismo di ritorno fomentato dai meccanismi delle reti sociali. Un luogo comune che viene reiterato fino ad assurgere a verità assoluta da non mettere in discussione, salvo passare per eretici o incompetenti. Ora, non c’è dubbio che i Six Feet Under abbiano spesso pubblicato lavori abominevoli e che non saranno ricordati per aver apportato alla scena freschezza e innovazione. Ed è ovvio che, sempre in virtù di banali dinamiche sociali amplificate da internet, a un tale accanimento contribuiscono non poco il carattere fumantino di Barnes e le sue affermazioni iperboliche su X, dove asserisce che “nel 1995 i Cannibal Corpse hanno cambiato nome in Six Feet Under”. Chris Barnes (che sostiene di aver smesso di farsi le canne) può stare sulle palle, ci mancherebbe, ma a me stanno più antipatici i fighetti che si sollazzano a ricoprire di letame quello che, senza l’ugola di Tomb of the Mutilated dietro il microfono, sarebbe considerato un altalenante ma non del tutto deprecabile gruppo di genere.

Il cuore della discussione non è se i Six Feet Under siano o meno una buona band, posto che a tratti lo sono stati. Il debutto Haunted era addirittura ottimo; perché c’era Allen West di mezzo, certo. Warpath e Maximum Violence, nella loro semplicità, sono stati dischi di ingresso per moltissimi ragazzini che poi sono passati a roba più seria. E i tre album usciti tra il 2012 e il 2015 (Undead, Unborn e Crypt of the Devil) furono sorprendentemente validi, una di quelle botte di ispirazione che spesso investono i veterani al raggiungimento della mezza età, cosa che viene riconosciuta anche dai recensori di Metal Archives che li subissano di valutazioni infime per poi sbrodolarsi di fronte all’ennesimo clone degli Incantation. Poi, certo, i Six Feet Under hanno pubblicato porcate inenarrabili che li rendono giustamente famigerati. A parte i vari Graveyard Classics, che sono un meme a parte, il penultimo Nightmare of the Decomposed, nel quale avevo riposto qualche speranza per via dell’arrivo di Jack Owen alla chitarra, era addirittura grottesco, con una produzione alla diociaiuti e un riffing da gruppazzo stoner dopolavoristico che rendeva quantomai appropriato il titolo della quinta canzone, Migraine, giacché arrivati fin lì la testa iniziava a dolere. Il punto, però, è un altro, si diceva.

La questione è: quelli che tanto si sollazzano nel motteggiare i Six Feet Under, in concreto, poi, che cosa gli contrappongono? E, volendone fare una questione di dialettica amico/nemico alla Carl Schmitt, io alla fine da che parte sto, se proprio devo scegliere? Perché di gruppi mediocri, di vecchie glorie decadute, di nomi popolari ma sopravvalutati il metallo è pieno. Tocca chiedersi perché questo ruolo da capro espiatorio girardiano spetti a Chris Barnes mentre un Glen Benton, che pure non si sta facendo mancare niente in termini di dischi brutti e scemi e sparate di cazzo polemiche, rimanga lo zio matto ma simpatico. 

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La risposta sta nell’invidia nei confronti di un buzzurro di (relativo) successo che mantiene un contratto con Metal Blade senza, suppongo, avere la necessità di trovarsi un lavoro normale. Un aspetto che si tende a sottovalutare quando si parla dei Six Feet Under è che si tratta di un gruppo che vende un fracco di copie. Non ho aggiornamenti sulla stima di Nielsen Soundscan, che nel 2003 contava oltre 370 mila dischi venduti, numeri che li rendevano il quarto gruppo death di maggiore successo negli Stati Uniti. Comunque gli ultimi Lp si sono piazzati più volte nelle classifiche americane, inclusa la Billboard 200. Certo, oggi si parla di qualche migliaio di copie, ma sono sempre cifre irraggiungibili per tanti gruppi prog-tech-math-BDSM extreme metal cari ai critici con la barbetta e il risvoltino. Un po’ come i Five Finger Death Punch, (con le dovute proporzioni, quelli sono superstar) i Six Feet Under sono così odiati anche perché riescono a intercettare un pubblico popolare a cui piacciono le cose semplici, che vuole solo scapocciare con un chitarrone fisso sul mi a vuoto e poi tornare a casa a bordo di un pickup con la bandiera confederata a mangiare armadillo arrosto per poi trombarsi la cugina. E QUINDI anche il loro album più schifoso raccoglierà comunque più estimatori della nuova mirabolante rivelazione uzbeka che finirà nelle classifiche di noi scribacchini ma non in quella di Billboard.

Killing for Revenge non è nulla di che ma è forse la migliore, facciamo la più tollerabile, uscita targata Six Feet Under da Crypt of the Devil, a cui era seguita una serie di pubblicazioni che sembrarono voler rilanciare con più forza che mai lo stereotipo di gruppo barzelletta, incluso un quarto volume della amatissima serie Graveyard Classics, di recente raccolta in un pregiato box in edizione limitata (evidentemente c’è qualcuno che se lo compra). Il risultato è un po’ più centrato dello sconcertante predecessore, che sembrava la prova volumi di una cricca di minorenni alle prime esperienze in saletta. Si torna all’essenziale, senza sconfinamenti incongrui, il solito brutal death groovoso e generico, con qualche buon momento qua e là ma, nel complesso, noioso. Owen fa qualche bell’assolo ed è coinvolto nella scrittura ma non è l’uomo in più che si auspicava. A metà disco ho iniziato a boccheggiare, chiaro. Ma mi succede la stessa cosa con tanti acclamati virgulti del death dissonante dalla tecnica sopraffina e dai suoni inintelligibili. (Ciccio Russo)

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