YNGWIE MALMSTEEN @Viper Theatre, Firenze – 10.11.2023
Vi spiego perché sono andato a vedermi Yngwie Malmsteen. Vent’anni fa suonò al Tenax di Firenze, e non feci la stessa scelta. All’epoca il compositore svedese era quarantenne e promuoveva Attack!!, con due punti esclamativi. Yngwie Malmsteen non è musica che non fa per me; passo per buono tutto fino ad Alchemy, dopodiché è come se considerassi la sua discografia un capitolo chiuso. Perché andare a vederlo ora che è sessantenne?
Reputo Yngwie Malmsteen un tocco di colore nella scena hard’n’heavy, il guitar hero per eccellenza, il Padrino del power metal dell’ondata che ci ha travolti in adolescenza. Reputo, inoltre, che questa fosse l’ultima occasione per goderne a pochi chilometri di distanza, con in canna una Rising Force o una Liar. È l’ultima occasione e l’ho colta, punto. Malmsteen è un qualcosa che, anche se non azzecca più un album dal finire del millennio e caratterialmente è quello che è, ritengo assolutamente necessario ai fini della sopravvivenza del genere tutto. Preferirò un temperamento difficile come il suo a cento artisti dalla personalità anonima i quali mai lasceranno il segno. E preferirò uno che si è giocato collaboratori come Joe Lynn Turner, Ron Keel, Jeff Scott Soto, il mio preferito e iconico Mark Boals, Bob Daisley, Mike Terrana e Cozy Powell, a chiunque non abbia avuto la verve, le capacità o l’indole per meritare certe firme al proprio fianco. Malmsteen quella cosa ce l’ha avuta e poco importa se oggigiorno promuove Parabellum, un dischetto appena passabile per il semplice fatto che i predecessori erano addirittura peggiori di lui.

Ph: Marco Belardi
È dall’epoca del disco con Tim Owens che Yngwie Malmsteen si occupa di tutto fuorché della batteria, e che la sua band non solo non comprende più nomi di spicco ma turnisti sul labile confine fra l’esser consenziente e l’esser sottomesso. Malmsteen è colui che ci licenzierebbe tutti per ridurre i costi e prendere un’altra fiammante rossa di cilindrata appena inferiore ai cinquemila. Eppure ho scelto di godermi il suo spettacolo per la prima e l’ultima volta nella vita, perché il giorno in cui anche Yngwie Malmsteen si ritirerà noi perderemo un altro pezzo, trascurato eppur fondamentale, dell’enorme puzzle che ci ha resi così appassionati alla musica, e non dei semplici nerd come i collezionisti di tazzine e pigiama degli Slayer che camminano in lungo e in largo nel mondo, impuniti, da due decenni almeno.
Il Viper Theatre di via Pistoiese, a due passi dalla Campi Bisenzio dei suoi peggiori giorni e in una serata di pioggia battente, l’ennesima di questo novembre, quando sono arrivato aveva il tunnel all’ingresso gremito di gente a quarantacinque minuti dall’apertura dei cancelli. All’interno mi sono goduto il vuoto per qualche decina di minuti, dopodiché un numero fra le ottocento e le novecento anime si è riversato all’interno del locale, rendendo fantascientifico lo spostarsi dalla mattonella scelta. Tecnici del suono e addetti ai lavori in generale, reduci dall’interminabile soundcheck del chitarrista svedese, m’hanno fatto una tale impressione che ne ho provato compassione: sebbene la sua fama lo precedesse, avrei presto constatato la sua pignoleria sulla pelle.
Il soundcheck Malmsteen l’ha fatto in abiti di scena, segno tangibile di quanto sia calato nel personaggio, incapace di mostrarsi in jeans e magari sobria maglietta anche agli addetti ai lavori.
Il mio accredito, richiesto e accordato due mesi prima, era scomparso dalla lista rendendomi prima un qualsivoglia clandestino entrato di soppiatto in un fusto della birra vuoto; poi, su intervento di quelli del Firenze Metal, qui sponsor della serata, un accreditato ma non un fotografo. La cosa si sarebbe rivelata un’ottima chance di sopravvivenza solo in un secondo momento, quello della soppressata umana a opera del bassista della band di Malmsteen. Il clone di Gene Wilder.

Ph: Marco Belardi
Ma arriviamoci per gradi. Le band di spalla erano stimate nel perfetto numero che è il due. Steve Ramone, che non ha suonato alla precedente serata all’Orion di Roma e neanche alla kermesse fiorentina, e i Limberlost, da Seattle, Stati Uniti. Ho subito notato l’organizzazione e la tendenza a un approccio straordinariamente professionale da parte di questi ultimi, che, prima di cominciare, hanno posizionato sul palco cartelloni con i QR Code per accedere ai loro profili social e al sito web. Pareva d’essere in una trattoria nel periodo della pandemia in cui erano scomparsi i menù dai tavoli, ma almeno mangiavi.
In prima fila un gruppetto d’emiliani, o romagnoli – le scriverò entrambe perché se ne azzardo una sola, e poi sbaglio, questi attraverseranno l’Appennino per cercarmi – scrutano i Limberlost mentre guadagnano il palco centimetro dopo centimetro. Il commento che desta i quasi novecento del Viper Theatre è letteralmente questo: “Mamma che cavallona!”.
LimberlostA Firenze una cavallona è una tizia alta e di corporatura robusta, o in lieve sovrappeso, ma che comunque fa sesso da tutte le parti. Agli emiliani fanno eco i fiorentini, i quali, ancora in digestione del lampredotto del chiosco adiacente al Viper, incominciano a accatastare carne alla carne nelle proprie teste. Il chitarrista dei Limberlost, sicuro fidanzato d’una delle due cantanti – azzarderei la mora, Krystle – tenta d’arginare l’inasprirsi della situazione scendendo nel pit dei fotografi e conversando allegramente con le prime file. Fa capire che sono americani, e fino a quel punto nessuno lo sapeva. Credo che nessuno lì dentro conoscesse i Limberlost.
Yngwie Malmsteen, che col suo soundcheck millenario aveva potenzialmente raso al suolo quello dei Limberlost, sarà trasalito nel backstage allorché questi se ne sono ampiamente sbattuti: all’ora d’inizio del loro concerto hanno fatto il soundcheck d’innanzi a un Viper Theatre già gremito, e, furbi, hanno messo in prima fila le due cantanti a scherzare sul fatto che non parlassero bene l’italiano ma masticassero qualche parola di francese per stuzzicare i presenti. In questa maniera hanno preso tempo, aizzato i maschi ed ecco fatti i suoni. Pure belli. Sforare in una programmazione complessiva di due band era ora realtà.
Loro musica è un qualcosa di singolare. È semplice e lineare, il duetto delle due voci femminili funziona a meraviglia e il chitarrista gioca terra terra in funzione della canzone finché non decide d’entrare in modalità solista. E da quel momento è veloce, pulito, e all’assolo seguente usa tre note come fossimo su In Bloom, richiamando come da manuale operativo del rock and roll la melodia del ritornello. Anthony alla tastiera si sente che è un gran debitore degli anni Settanta, il che ci rimanda alla cover conclusiva. La sua peculiarità è quella d’assomigliare a Clancy Brown, e, un attimo dopo, infilarsi gli occhiali da sole e somigliare al Ceccherini. Il che è inquietante. Il bassista sembra fuggito da un motoraduno alla Futa.
Le due cantanti reggono il palco meravigliosamente, Krystle più energica e grintosa, Brittany con maggiore malizia. I pezzi variano dal decente al discreto, eppure, a metà setlist, il Viper Theatre era interamente coinvolto da una band di cui in principio non fregava niente a nessuno, divergente com’era dalla portata principale della serata. Per me questo è sinonimo di piena riuscita dell’operazione. Alla fine rifanno Kashmir dei Led Zeppelin in maniera fantastica, ma è lì che casca l’asino, ovvero il batterista, che inciampa sui fill di Bonham e finisce fuori luogo ogni qualvolta tenta di personalizzarla nella sua straniante semplicità originaria. Brittany – la cavallona, stando alle prime file – a un certo punto prende una busta della spesa e comincia a lanciare sulla gente un qualcosa che non capisco se sono gadget o se è da mangiare.

Ph: Marco Belardi
Finiscono, foto di rito che ritroveremo sui loro profili social raggiungibili anche con quel QR Code, e compaiono tre Fender Stratocaster color crema nell’angolo destro del palco. Avete capito bene.
La gente a Firenze va in embolia per Yngwie Malmsteen. Sarà perché abbiamo avuto certo power metal tamarro e che quel power metal tamarro dal boom degli Stratovarius in poi non avrebbe avuto i medesimi lineamenti, senza il suo operato. Ma non riesco davvero a comprendere quanto l’italianità e Yngwie Malmsteen si sposino alla perfezione oltre la sua rinomata passione per il marchio Ferrari. A proposito, in prima fila compare guarda caso una bandiera della casa di Maranello. Con disegnato il cavallone impennato alla ricerca della cavallona.
Fanno capolino anche due elementi cardine del concerto: un tecnico di palco che inizia a giocherellare con una pedaliera che genera bassi vibranti simili a una colonna sonora qualsiasi dei film di Christopher Nolan, ovvero un grandissimo rompimento di coglioni, e un tale con i capelli lunghi e ricci. Sopra a dire il vero è quasi pelato, e assomiglia in qualche maniera a Gene Wilder. Sul momento lo bollo come un manager, scoprirò poco dopo che è il bassista: si accanisce sui fotografi nel pit e dice loro che devono occuparne la metà sinistra, “da qui in poi”, e inquadrare verso destra. In pratica dice loro di fotografare solamente Yngwie Malmsteen e non i componenti turnisti che si porta appresso. Tanto saranno licenziati in tronco entro dodici mesi: se non è servilismo questo non è servilismo niente.

Ph: Marco Belardi
I fotografi, che durante lo show dei Limberlost erano quattro, adesso sono otto, e Gene Wilder li schiaccia uno sopra l’altro in neanche due metri quadri in una sorta di informe human centipede fatto di braccia, gambe e teleobiettivi. Pare The Thing. Il vantaggio per me è che sono in prima fila sul lato destro del palco, e quindi me li sposta tutti da davanti incluso un tale alto e largo quanto Jason Momoa. Dice inoltre loro, e questo l’avevo previsto, che potranno scattare soltanto durante le prime tre canzoni dell’esibizione: è un proforma che francamente, e contrariamente al mio personalissimo interesse, in buona parte condivido.
Quell’indemoniato sale sul palco e completa uno show di un’ora e mezzo senza percettibili segnali di cedimento. È molto difficile spiegare le sensazioni che ho provato a coloro che non sono stati lì, a prescindere dal fatto che ammirino o meno la musica e l’estro di Yngwie Malmsteen.
Si è sul confine fra la baracconata totale, l’esibizione di un Elvis Presley sfatto che viaggia a duecento all’ora con la merlite e la camicia sbottonata in piena ostentazione della pancia, e il delirio tecnico cacofonico. Eppure è tutto quanto perfetto. I suoni, che erano stati meravigliosi e bilanciati in occasione dello spettacolo dei Limberlost, sono ora spinti oltre il muro della decenza. Non si sente più niente tranne lui.

Ph: Marco Belardi
C’è un tastierista e cantante. Perché, vi domanderete? Perché adesso Yngwie Malmsteen canta e non è neppure un cane. Fa abuso del vibrato per compensare le lacune, ma, siccome deve portare in scaletta roba in origine affidata a Boals, Owens o Vescera, quella roba gliela canta il turnista. La roba di Parabellum è invece tutta quanta sua, in piena padronanza. Il problema è che il tastierista, quando canta, è talmente mixato basso da non sentirlo affatto. Immaginate quindi se sentirete il bassista.
Malmsteen ci propina di tutto, da Paganini e Bach agli omaggi a Brian May e al blues – è suo solito ripassare Jimi Hendrix e tutto il resto che omaggiò in Blue Lightning – o ai Deep Purple con Smoke on the Water integralmente riproposta salvo le comprensibili modifiche alla sezione solista in scia al programma televisivo Pimp my Ride. Rifà Rising Force e Seventh Sign fra le title track più ambite, quest’ultima cantata a squarciagola dal Viper Theatre nel suo indimenticabile ritornello. Suona coi denti. Concede un assolo al batterista, che subito si mette a fare i blast beat e qualche altra cosa tutt’altro che indimenticabile, ma almeno non violenta Bonham, e poi concede a noi i classici Black Star e You Don’t Remember, I’ll Never Forget rispettivamente dal primo e dal terzo album oltre gli anni degli Alcatrazz e gli Steeler.
Ampia concessione al materiale recente, quasi non lo sapesse che non c’interessa, con tanto di ode al microfono a Parabellum e una buona esecuzione della sua opener Wolves at the Door.
Yngwie Malmsteen lancia plettri nella nostra direzione in qualunque maniera possibile. Col calcio sinistro e poi col destro, mancandone molti. A un certo punto sul palco ci sono più plettri che cavi collegati all’Orrore che rifà le colonne sonore di Nolan e nelle prime file, me compreso, un po’ tutti sono riusciti a accaparrarsene uno. Un tale ha una crisi istrica e implora la security di raccattargliene uno da sotto le transenne. Il tecnico di palco sostituisce a più riprese il porta plettri sull’asta del microfono, non gli sta dietro, arranca anche lui.

Ph: Marco Belardi
Malmsteen ha sessant’anni, è un classe 1963 come tanti metallari della generazione con cui siamo cresciuti. James Hetfield, per esempio, è un altro del 1963. Per avere l’età che ha è un cavallo pazzo, te ne accorgi non al primo pezzo, non al secondo. Te ne accorgi all’encore, quando continua a scatenare il panico, a non ciccare note e a generare l’elettricità da tutto quell’agitare di dita. Te ne accorgi quando smonta le corde d’una delle Stratocaster griffate Ferrari dagli adesivi e poi la dà in pasto a una cassa spia, o dal fatto che s’è preso tutta quella porzione di palco perché la sfrutterà centimetro dopo centimetro, come un posseduto.
La sua band è lì nell’angolino e continui a non notarla e nemmeno a sentirla. Alla fine del concerto è come se calasse il sipario del protagonismo: ringrazia il pubblico, lo fa sinceramente e ripetute volte, concede una foto abbracciato ai turnisti che lo accompagnano, lo supportano e probabilmente lo sopportano. Esce nuotando fra i plettri come nella partita di calcio di Fantozzi, e, un attimo dopo, penso io a come uscire da tutto quel marasma.
Fuori sono assalito dal pensiero che non rivedrò più un suo concerto in vita mia e che ce l’ho fatta. Giudicare Yngwie Malmsteen è prematuro dopo l’ascolto di un disco. Giudicarlo è stato possibile la notte del 10 novembre, quando ha offerto ai fiorentini e a qualche ferrarista dell’Emilia Romagna il migliore spettacolo possibile e ipotizzabile. Credo in sostanza che il giorno in cui il mondo avrà perso l’ultima personalità insopportabile, pignola e stravagante del rock and roll, esso stesso diverrà un mondo in bianco e nero, senza più sfumature. È nell’arte che trovano sfogo soggetti come Yngwie Malmsteen, sempre messi alla berlina, discussi, spesso a ragion veduta. Se state a un suo concerto in prima fila, non avrete da ridire su di lui neanche una volta. Qualunque sia il disco che vi propinerà, qualunque sia la decisione manageriale che adotterà per ridurre ancora una volta i costi, tipo licenziare anche il tecnico di palco per far manovrare e testare quella pedaliera da un braccio meccanico fucsia, leopardato e glitterato. Pazzo. Averne per sempre di pazzi come lui. (Marco Belardi)

Ph: Marco Belardi


Recensione sontuosa della serata. Non concordo su tutta questa necessità di vecchie guardie.
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Mi spiace ma il concerto di Milano è stato una vera schifezza,nessun brano da Odyssey,niente voce,ore di assoli senza senso,tutto al risparmio.
Quanto mancano i Johanssons e Joe Lynn Turner a questo Malmsteen.
Molta gente ha sloggiato prima della fine.
Con un repertorio a disposizione snobbato e una band al risparmio ti saluto.
Quanto mancano i rising force
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Temevo una cosa del genere. Non sono andato per il timore che si verificasse proprio questo, mi tengo il ricordo di 20 anni fa.
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Salve, complimenti per la recensione , probabilmente ero molto vicino a lei perche’ riconosco dal suo racconto tutto quello che ho vissuto anch’io . Era la settima volta che vedevo dal vivo un concerto di Malmsteen e concordo sul fatto che anche per me molto probabilmente sara’ l’ ultima volta. Ho studiato chitarra e violino all’ interno della famiglia Paganini dove ho avuto il grande onore di frequentare il nipote di terza generazione del grande Niccolo’ Paganini il quale mi ha introdotto all’ interno della scuola violinistica paganiniana.ho un’ accento romagnolo perche’ vivo a Pesaro. Sono 40 anni che seguo e studio e insegno la tecnica di Malmsteen che secondo me si avvicina tantissimo a Paganini soprattutto nell’ uso degli arpeggi sweep e del vibrato che a Paganini per certi concerti fu anche proibito! . Ho avuto l’ onore di eseguire brani di Malmsteen nei pressi della casa di Gioacchino Rossini.per ultimo sono anche un grande tifoso della Ferrari.Complimenti per la sua bellissima recensione della serata.
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Visto a Milano l’11 novembre, e devo dire che, da dove ero posizionato io, si sentiva tutto benissimo.
Quest’uomo è in tourneé da 40 anni, ha scritto dischi storici, ispirato milioni di chitarristi, ha suonato ovunque e ripetutamente ovunque, e lo ha fatto sempre da solo. Non ha un gruppo che lo supporta umanamente come Hetfield o Jagger o Steve Tyler. E non avrebbe mai potuto averlo perché a differenza di questi citati Malmsteen è un genio, come Maradona, Dante, Tesla. I geni vivono e muoiono soli.
Andare ad un concerto di un genio, non di un semplice musicista, vuol dire aspettarsi uno show che supera gli schemi fissi.
Io volevo vedere suonare Yngwie Malmsteen, non solo ascoltare la sua musica, e ci sono riuscito.
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io direi che può fare quello che vuole dopo 40 anni di incredibile tigna, passione, determinazione e genio. Si perchè Malmsteen ha creato un’isola rock che non c’era. Premesso questo, diventare decisori di sè stessi al 100% a volte non è un bene, ma nel suo caso probabilmente non c’era altra strada. More is more e a Roma abbiamo visto cosa vuol dire: una energia pazzesca che purtroppo fagocita turnisti e fonici. Si gode a metà perchè il repertorio del Nostro ha pezzi come You Don’t Remember e Like an Angel che senza una voce adatta perdono tutta la loro essenza. Più volte ha detto di sentirsi come un pittore davanti alla sua tela e credo che tra qualche anno lo vedremo solo sul palco con le backing tracks a spararci note a tutta pressione! Lui si diverte e alla fine pure noi.
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