Avere vent’anni: STEEL ATTACK – Predator of the Empire

C’è stato un periodo, neanche troppo breve, in cui ascoltavo a ripetizione The Sacred Talisman dei Nocturnal Rites, Head of the Deceiver degli Wizard e questo Predator of the Empire. Diciamo che per mesi ho ascoltato uno o due dei suddetti dischi almeno una volta al giorno. Quindi nella mia testa i tre album sono strettamente legati, nonostante non c’entrino troppo l’uno con l’altro. Voi direte che è un’informazione superflua e che sostanzialmente non ve ne frega nulla, ma questo è.

Dei tre, l’album degli Steel Attack è il più grezzo. Non il più ignorante o aggressivo, attenzione, ché quello è senza dubbio Head of the Deceiver. Predator of the Empire è il più grezzo perché è quello realizzato in maniera più casereccia, diciamo così. Già il modo in cui parte il disco può far storcere il naso, con quell’attacco di doppio pedale triggerato plasticosissimo, e la voce del cantante a un primo ascolto sembra inadeguata (non che Anders Zackrisson e Sven D’Anna potessero sostituire Placido Domingo nei Tre Tenori, comunque). Ma non si ascolta questo genere di musica per fare troppo i puntigliosi, e basta avere la pazienza di proseguire nell’ascolto per accorgersi che Predator of the Empire spacca davvero di brutto. Il punto di forza sono le melodie, ispiratissime, che mettono in secondo piano tutto il resto. In alcuni momenti sembra che loro stessi fossero così estasiati dalle melodie che sono riusciti a scrivere da ripeterle tendendo all’infinito. Certe volte davvero partono col ritornello e sembra che non vogliano farlo finire più, per quanto funziona bene.

Tornando al parallelismo iniziale, con The Sacred Talisman il terzo disco degli Steel Attack condivide il fatto di essere una versione ammodernata del metal classico in chiave svedese, mentre con Head of the Deceiver condivide una certa cafoneria di fondo che lo rende intrinsecamente parte del sottobosco del genere – a differenza dei primi Nocturnal Rites, che avevano un respiro più ampio. Come detto più volte, scrivere troppo su un disco che si fonda così tanto sulle melodie è una fatica improba, perché l’unica cosa utile da fare in questi casi è ascoltarlo. Dunque farò una complicatissima scelta tra i dieci pezzi in scaletta e vi lascerò con la conclusiva Reality Unknown, che chiude il disco in modo tale da rendere difficilissimo il non far partire tutto daccapo. Sempre vivano gli spadoni d’acciaio cromato, amici del vero metal. (barg)

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