Che cos’è il genio: JOHN CALE – Mercy

“Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”.
Ho sempre ritenuto abusato il riferimento alla “genialità” in ambito musicale. Un epiteto che viene spesso attribuito a grandissimi compositori, a band che hanno fatto la storia della musica, ma che non hanno “innovato” o “inventato” nulla. Magari scrivendo anche canzoni migliori, più iconiche, ma non è questo il punto.
Citando l’immortale battuta fuori campo del Perozzi, si dovrebbe delimitare il concetto di genialità in musica, comprendere quanto l’innovazione e l’eclettismo di un artista incidano su tale definizione e, di talché, restringere in modo consistente l’elenco degli artisti considerati “geniali”.
Tutta questa premessa per dire che in questo club esclusivo, nella storia della musica contemporanea, un posto di rilievo spetterebbe di diritto a John Cale; non solo per quello che ha fatto ma anche per quello che fa, ancora oggi, ad ottantun anni suonati.
John Cale ha fatto la storia del rock, pur essendo distante anni luce da tale genere. Cale ha infatti avuto una formazione classica che è stata coltivata, nel suo primo periodo americano, attraverso le forme dell’avanguardia e della sperimentazione del Theatre of Eternal Music di La Monte Young, complesso che ha aperto le porte ad un certo tipo di minimalismo che è stato di fondamentale importanza per la nascita dei Velvet Underground e che ha costituito la base per alcune strutture compositivi presenti nei più disparati generi.
Dopo più di cinque decenni di attività più o meno incessante, nel corso dei quali l’artista gallese ha spaziato tra generi e stili diversi tra loro, arriva questo Mercy che non solo è la sublimazione di un percorso di avvicinamento all’elettronica intrapreso da quasi tre lustri ma è anche uno dei suoi lavori più ispirati in assoluto. E dato che – escludendo i primi due Velvet Underground che rappresentano una creatura bicefala sua e di Lou Reed – parliamo di un artista che ha scritto Music for a New Society e Paris 1919, tra i due album più importanti di qualunque genere musicale, non è una notizia da poco.
Mercy, infatti, è il Time Out of Mind di John Cale, l’album di caratura superiore che non ti aspetti, anche perché è tutto fuorché un disco della maturità. E ciò in quanto, nonostante una certa ricercata atmosfera ottantiana, suona molto più attuale dei lavori di artisti ben più giovani e contemporanei. Artisti di cui in quest’album Cale si circonda concedendo ben sette “featuring”. E anche in questo c’è grande sapienza: non solo nella scelta degli artisti (tra i quali spiccano Lauren Halo, Actress, Animal Collective e Weyes Blood) ma nel loro utilizzo come meri strumenti, come parti di un tutto che non perde mai di coesione.
Mercy, infatti, è un disco estremamente coeso, difficile, costruito su strutture circolari, ripetitive, su un mood unitario presente in tutte le composizioni – che di primo acchito può sembrare anche monotono – e che, di fatto, rende l’album come un’unica sinfonia divisa in più movimenti.
Dai momenti più ottantiani dell’iniziale Mercy a composizioni più canoniche come la straordinaria Story of Blood, passando per l’electro-soul di Night Crawling e le orchestrazioni – ovviamente curate e arrangiate da Cale – della toccante Moonstruck (Nico’s Song) scritta pensando alla compianta sodale di un tempo, non c’è un singolo momento di “mestiere” o un singolo passaggio che non sia da scoprire e approfondire sotto un punto di vista compositivo e sonoro.
Tanto che è davvero difficile – e sterile – incasellare un album di tale natura in un singolo genere: perché, sebbene Mercy poggi, come sopra accennato, su determinate strutture che si ripetono per tutta la sua durata, si tratta al tempo stesso di un lavoro che spazia e gioca con i generi, piegandoli alla propria volontà, come dimostrato dal quasi pop di Nice of You, allo struggimento pop-operistico della conclusiva Out your Window, capolavoro dell’album.
Una coesione di unione di generi che riesce, appunto, solo a chi geniale lo è davvero, a quei pochi artisti che hanno un quid pluris rispetto al resto del mondo che però, solitamente, si esaurisce in un lasso di tempo piuttosto limitato, lasciando spazio “solo” al talento.
John Cale invece è ancora oggi geniale e anche dopo decenni è stato in grado di pubblicare un album di cui, pur in seguito a svariati ascolti, è possibile intravedere solo la punta dell’iceberg e che anche fra vent’anni continuerà a sorprendere. (L’Azzeccagarbugli)
Grande riflessione, corro subito ad ascoltarlo e complimenti per aver citato questi arzilli ottantenni (vedi il Dylan di time out of mind che all’epoca di quel disco ne aveva quasi sessanta, ma la sostanza non cambia) che continuano imperterriti a rilasciare dischi mai banali per amore della musica.
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Time Out of Mind per me è sempre il punto di riferimento assoluto, perché veniva da dischi minori, con un Dylan quasi dato per bollito (nonostante Oh Mercy) e che invece se ne esce con un album di quel calibro, con una Not Dark Yet che è già storia. Che poi, personalmente, parlando di Dylan avrei potuto ben citare anche l’ultimo che è un disco straordinario.
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Finalmente qualcuno che ascolta i dischi. Dylan da quando si é adagiato sull’american songbook ha fatto grandi cose: time out of mind, love and theft, modern times, Tempest è l’ultimo splendido rough and rowdy ways.
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