La finestra sul porcile: AVATAR – THE WAY OF THE WATER

Non credo riuscirò mai ad abituarmi all’atteggiamento che una certa “accademia” ha oggi verso il cinema di cosiddetto intrattenimento. Sono cresciuto in un contesto in cui, a parte un manipolo di illuminati, tutto ciò che era genere, o blockbuster era automaticamente di una categoria inferiore, neanche degno di essere considerato “cinema”.
Parliamoci chiaro: fino agli anni ’90, autori oggi venerati come John Carpenter, Dario Argento, o lo stesso Steven Spielberg – almeno quando non affrontava temi più seri- venivano sempre contrapposti ai veri autori e al cinema con la “C” maiuscola. Per non parlare di James Cameron, un regista che anche quando girava un b-movie a basso budget come Terminator (probabilmente il suo capolavoro), aveva un senso dello spettacolo e delle ambizioni fuori misura. E, fortunatamente, ha continuato ad averle sempre, ad ogni sua uscita, indipendentemente dal genere, diventando quasi un elemento costituivo della sua cifra stilistica.
Tutto questo per dire che quando oggi mi imbatto nei post che invocano i salvifici incassi di Avatar, o nelle recensioni in cui si cerca di conferire un tono alto alle tematiche trattate da Cameron, mi viene da sorridere. Perché quando assisto ad una sistematica intellettualizzazione tanto di questo The Way of the Water, quanto dell’opera di Cameron, non posso che sorridere, trattandosi di un regista che ha sempre avuto altri pregi: la purezza e la grandiosità dello sguardo, la dettatura dei tempi, la spettacolarità della messa in scena. Ed è per questo che ritengo che appesantire di significati il cinema di James Cameron sia sbagliato e contrario alla finalità perseguita, che, almeno oggi, è quello di creare nuovi mondi in cui immergersi, nella speranza di un futuro migliore.
Un obiettivo tanto evidente quanto trasparente, riscontrabile sin dal precedente capitolo di questa saga di Avatar e che appare ancor più presente nel secondo e ben più riuscito The Way of the Water, che riprende le fila dal finale del film del 2009 e ne ricalca schemi e temi. La differenza è che laddove nel primo capitolo la presenza umana era, anche per esigenze narrative, fin troppo presente, così come troppo numerose e invadenti le introduzioni e le spiegazioni, in The Way of the Water si parte subito in quarta, con dei ritmi che tolgono il respiro, un senso della meraviglia che non lascia indifferenti ed un 3D a dir poco spettacolare
Il 3D merita un discorso a parte: se nel primo Avatar serviva a rendere ancora più spettacolari determinate sequenze, in The Way of the Water fa parte del linguaggio cinematografico utilizzato da Cameron, fino a diventarne parte integrante se non fondamentale. La messa in scena, la costruzione di ogni scena è evidentemente pensata avendo in mente l’effetto stereoscopico, il senso di vertigine dello spettatore e la profondità degli spazi ripresi. Questo aspetto, anche grazie ad una regia davvero ispirata, è a dir poco vincente e riuscito, diventando, al tempo stesso, un limite per il film: difficilmente una visione diversa, anche in sala, potrà conferire lo stesso impatto di quella in 3D, per non parlare di quella casalinga che perderà tantissimo in termini di impatto e coinvolgimento.
A questa complessa meraviglia visiva si affianca una collaudata semplicità e linearità narrativa. Una storia semplice, ma non banale, fondata su solidi archetipi e su temi di facile lettura: abbiamo una netta contrapposizione tra buoni e cattivi, tra la natura benevola e tecnologia usata in chiave ultra-capitalista e che rappresenta una minaccia per l’equilibrio perfetto di Pandora, materialismo contro spiritualità (a tratti new age).
È tutto di facile lettura ed è anche giusto così: il cinema di Cameron è soprattutto visivo, di sensazioni, un cinema che raramente mette al centro una narrazione “forte”, o particolarmente complessa e aspettarsi qualcosa di diverso questa volta sarebbe davvero insensato. Semplicità che, comunque, non significa sciatteria: il film resta avvincente, appassionante, ricco di capovolgimenti di fronte e, soprattutto, rispetto al primo capitolo, riesce davvero a far entrare in sintonia con questo mondo, e far a provare empatia per i suoi abitanti e le sequenze in cui la famiglia Sully deve letteralmente imparare a respirare in un nuovo mondo e convivere con delle creature sconosciute, sono davvero toccanti ed emozionanti. Ed è quasi superfluo statuire che le sequenze belliche sono davvero da applausi a scena aperta.
Al netto di alcune eccessive lungaggini e di alcuni schemi eccessivamente ripetitivi che finiscono, alla lunga, per far calare l’attenzione dello spettatore, The Way of the Water è una scommessa vinta che, anche grazie ad una sapiente gestione dei generi e dei registri da parte di Cameron, fa tutto quello che dovrebbe fare un blockbuster: diverte, stupisce, lascia a bocca aperta grandi e piccini (per tre ore e dieci di durata!) e suscita interesse per il prossimo capitolo.
Non importa che non sia assolutamente un capolavoro, o anche un gran film e non serve scomodare Malick per cercare di “nobilitare” un’opera tanto riuscita, quanto trasparente nelle sue intenzioni. Ciò che importa è che James Cameron ha risollevato le sorti dei botteghini, ha sfruttato al meglio le tecnologie esistenti e ha creato un’esperienza davvero immersiva e sensoriale che ci ricorda, ancora una volta, perché la visione in sala non potrà essere mai sostituita. (L’Azzeccagarbugli)
Purtroppo l’esperienza in sala con ventate puzzolenti e mefitiche di popcorn burrosi non fa per me. Ultima esperienza traumatica.
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Su questo, capisco perfettamente. In effetti, abitando a Roma ho la possibilità di scegliere e al Barberini alle 21, pure in lingua originale, mi sono risparmiato l’esercito di adolescenti maleodoranti! :D
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