La finestra sul porcile: The Fabelmans, il diario sentimentale di Spielberg

“Where’s the horizon?”
Questo quesito, posto al giovane Sam Fabelman in evidente soggezione, chiude l’ultima opera di Steven Spielberg e racchiude in sé il senso dei 150 minuti che precedono. Se la domanda è “tecnica”, il suo significato, alla luce della storia raccontata, è molto più ampio e profondo. L’orizzonte infatti non è solo quello dell’inquadratura ma è anche ciò che si persegue, quello che si scorge a volte con ansia e altre con aspettativa, soprattutto in un momento di crescita e di passaggio attraverso gli anni di formazione. E The Fabelmans è anche questo: un romanzo di formazione, un coming of age, ma non è solo questo.
Il progetto a lungo tempo pensato dal regista americano infatti è un film semiautobiografico, sulla propria infanzia e adolescenza, sull’incontro col cinema e con quelle “figure giganti” proiettate sullo schermo, sulla propria famiglia e sul trauma subìto in seguito alla separazione dei genitori. Un progetto che Spielberg avrebbe voluto realizzare negli anni ’90 scrivendo il soggetto con la sorella Anne, ma che poi ha accantonato fino ad oggi, quando ha firmato la sceneggiatura insieme al fido Tony Kushner. Circostanza non di poco conto, se si considera che nella sua straordinaria e lunga carriera questa è la terza sceneggiatura del regista di Cincinnati dopo Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo e A.I.. Tre film, a ben vedere, accumunati dalla tematica familiare che in The Fabelmans viene sviscerata con tenerezza, pudore ed emozione.
Se tematiche del genere, in mano ad altri autori, rischiano sempre di condurre a eccessiva autoindulgenza, momenti di autoreferenzialità ed eccessiva nostalgia (unitamente a riflessioni spesso scontate e melense sulla “magia” del cinema), in mano a Steven Spielberg assumono tutt’altro valore e significato.
Perché, se il cinema è magico, e se per un bambino che si affaccia alla vita la visione del primo film in sala può essere un evento memorabile e, come nel caso del piccolo Sammy, può fare scattare una scintilla, una curiosità, la necessità di fare scontrare i vagoni del suo trenino giocattolo, come nella celebre scena de Il più Grande Spettacolo del Mondo di Cecil B. DeMille, questa visione idealizzata non può durare per sempre. Crescendo, infatti, il cinema può diventare tossico, può rivelarsi un’ossessione e può isolarti, come ricorda il prozio Boris al giovane protagonista, fino a che quella stessa magia – che si respirava anche nell’ambiente familiare – è destinata a scomparire. E quando le cose non funzionano il cinema non diventa solo qualcosa in cui rifugiarsi, non svolge solo una funzione salvifica, come quando ci si infila in una sala per vedere un film del più grande regista di tutti i tempi, ma diventa l’unico modo attraverso cui riuscire ad esprimersi. Così, questo strumento può essere estremamente deflagrante per tutti quelli che ti circondano, perché da esso derivano grandi responsabilità.
È con “l’immagine” che Sammy cerca di consolare la madre, ed è attraverso di essa che esprime il proprio talento e la propria visione, ma sono sempre le immagini che sanciscono la fine dell’idillio familiare e che mettono in crisi anche il più imbecille dei bulli scolastici. Per questo The Fabelmans non è solo un film sul cinema ma è un’opera in cui questo diventa uno strumento per raccontarsi, analizzarsi e, infine, lasciare andare.
The Fabelmans è infatti un dialogo tanto personale quanto universale – per le tematiche trattate – con il proprio passato che, oggi come allora, può essere affrontato nell’unico modo possibile: attraverso le immagini. Questo viaggio interiore viene affrontato da Steven Spielberg, coadiuvato da un cast semplicemente eccellente (si segnala un cameo sensazionale di David Lynch che non può e non deve essere rovinato) e da un comparto tecnico come sempre straordinario (con quella che pare sarà l’ultima colonna sonora di John Williams), con una grazia e una gestione dei tempi e dei registri narrativi che non ha eguali.
Da un lato, visivamente, riesce ad alternare uno stile sobrio e maturo a uno vivace e libero (quando si tratta di rimettere in scena i primi esperimenti con la macchina da presa del protagonista); dall’altro, a livello di scrittura, anche nei momenti più drammatici, difficili e commoventi Spielberg riesce a connotare la sua opera di una leggerezza difficilmente riscontrabile in altre pellicole del genere, riuscendo anche in diversi momenti da “commedia classica” da applausi a scena aperta. In questo sublime diario sentimentale lo spettatore non può che perdersi per l’ennesima volta nella visione di Spielberg, ritrovandosi in alcune situazioni, ricordandone altre del tutto diverse e, al tempo stesso, comprendendo ancora una volta perché il cinema ha un posto così importante nelle nostre vite.
E al termine di questa emozionante, commovente e vitale autoanalisi, non si può che convenire di trovarsi di fronte a quella che, con buona probabilità, diventerà una delle pietre angolari della filmografia di un regista che ha fatto – e continua a fare – la storia del cinema. (L’Azzeccagarbugli)