Il disco che trent’anni fa cambiò il corso del death metal

In principio fu il suono primordiale dei Grotesque, autori di un unico Ep nel 1990. Al basso un paio di carneadi che passavano di lì; alle chitarre Kristian “Necrolord” Wahlin, poi tra i più apprezzati copertinisti del giro, e un certo Alf Svensson; alla voce un ragazzino ancora minorenne che si fece subito notare per la timbrica lacerante e personalissima: Tomas Lindberg, Tompa per gli amici. La band si sciolse subito e dalle sue ceneri nacquero gli assai meno ortodossi Liers in Wait. In Spiritual Uncontrolled Art, il mini del 1992 che fu l’unica testimonianza discografica del gruppo, della formazione dei Grotesque era già rimasto solo Wahlin. Svensson e Lindberg nel frattempo avevano dato vita a un altro progetto con un giovane chitarrista che era passato per un breve periodo negli stessi Liers In Wait: tale Anders Bjorler. Mancava solo la sezione ritmica. Alla batteria venne reclutato un altro debuttante assoluto, Adrian Erlandsson, e alle quattro corde arrivò Jonas, fratello gemello di Bjorler. Fu scelto un moniker pomposo, preso da una canzone dei Fields of the Nephilim: The Dwellers at the Gates of Silent Memory. Ma era troppo lungo e fu ridotto ad At The Gates.

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Gardens of Grief, la demo del 1991, aveva già mostrato un approccio peculiare alla materia estrema. L’Lp che seguì l’anno successivo mise decisamente a dura prova gli scribacchini, data la difficoltà nell’inquadrare una musica che sfuggiva a ogni categorizzazione. Era death? Era black? Era doom? Era tutto questo e molto di più. Era un sound mai sentito prima, che non aveva nulla a che vedere con il circuito di Stoccolma (Grave, Unleashed ed Entombed erano ormai al secondo full e pure i Dismember avevano già esordito) che si distingueva sì dalla scuola americana ma aveva conservato un’impostazione tutto sommato tradizionale, influenzata dal thrash tedesco. The Red in the Sky Is Ours fu invece il primo lancinante vagito della scena di Goteborg. Eppure non c’entrava granché con quello che sarebbe diventato il sound di quella scena, i cui stilemi vennero codificati l’anno successivo da A Velvet Creation degli Eucharist e da Skydancer dei Dark Tranquillity. Il tratto più riconoscibile di quel sound – le melodie maideniane costruite sulle scale minori (che, a dirla tutta, c’erano già nei Dismember) – era infatti presente solo come elemento secondario di un affresco oscuro e cangiante, che avrebbe stravolto e ridefinito le regole del genere.

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Il timone compositivo era allora saldamente nelle mani di Svensson. Quando, alla fine del 1990, fu messo su il gruppo, Tompa e i Bjorler avevano appena 18 anni ed Erlandsson ne aveva venti. Svensson ne aveva 24, una differenza anagrafica che, a un’età simile, è molto significativa e gli conferì in modo naturale la guida del quintetto, al quale impose il suo inquieto estro. “Alf scriveva davvero musica molto strana“, avrebbe ricordato Anders Bjorler in un’intervista, molti anni dopo, descrivendo come “eccessive” alcune idee che aveva sottoposto ai compagni. Svensson non era solo più anziano ma aveva anche un bagaglio tecnico superiore a quello dei suoi imberbi sodali, che quasi faticavano a stargli dietro. Erlandsson dimostrava già un discreto talento ma le sue parti di batteria erano un po’ troppo scarne per il riffing schizofrenico di Svensson, che avrebbe richiesto un sostegno ritmico più ricercato. Posto che quello che suonava Erlandsson non si capiva manco benissimo a causa del mixaggio confuso, con un rullante che andava e veniva e piatti non sempre intelligibili.

Lindberg non ha mai nascosto che The Red in the Sky Is Ours è l’album degli At The Gates che ama di meno a causa della produzione. L’idea era inciderlo ai Sunlight Studios di Tomas Skogsberg, lo Scott Burns di Stoccolma, dove era già stato registrato Gardens of Grief. In mesi in cui dalla Svezia sembrava dover uscire un capolavoro ogni settimana, i Sunlight non sarebbero però stati di nuovo disponibili prima di un paio di mesi. L’impazienza giovanile spinse gli At The Gates a optare per i più costosi Art Studios, una scelta che, raccontò Erlandsson alla fanzine finlandese Carrion in un colloquio del 1993, “rimpiangeremo per il resto della nostra vita“.

At-The-Gates---Line-up-02Non era mai stata nostra intenzione produrlo da soli, semplicemente andò così perché l’ingegnere del suono non si fece vedere quasi mai durante le sessioni di registrazione, ci disse giusto quali bottoni premere“, spiegò il batterista, “quindi sì, abbiamo avuto difficoltà a trovare il suono che abbiamo elaborato e, anche se non era il suono che stavamo cercando e molte persone lo criticano, alla fine siamo rimasti abbastanza soddisfatti, perché è qualcosa che abbiamo fatto da soli, per quanto, se fosse stato registrato oggi, non verrebbe affatto così, dal punto di vista sonoro. Considerandolo come una testimonianza di ciò che stavamo facendo al momento dell’incisione, siamo orgogliosi del suono e dell’impressione complessiva che fa“.

The Red in the Sky Is Ours è tuttavia uno di quei casi dove una produzione inadeguata finisce per contribuire al fascino di un lavoro sfuggente e spiazzante, che riesce a trasmettere una sensazione di genuina inquietudine proprio perché non si capisce sempre bene cosa stia succedendo e perché. Della batteria si è detto. Il basso è molto in primo piano nel mix e si cimenta in fraseggi anche troppo elaborati (i fratelli Bjorler all’epoca menzionavano gli Atheist quale loro gruppo preferito). Jonas era il classico bassista che fa troppe note, si direbbe in sala prove, e a volte sovrasta quelle chitarre, leggere nella resa quanto dense nei contenuti. Ascoltando i riff di Svensson mi era sempre venuto in mente l’aggettivo circolare. Poi, documentandomi per la stesura di questo articolo, sono incappato in un’intervista nella quale Anders Bjorler raccontava che Alf riascoltava sempre al contrario le partiture che scriveva, dopo averle registrate, e spesso utilizzava quello che veniva fuori. Alcuni riff sono quindi letteralmente circolari: fate caso alla struttura di quelli portanti di Kingdom Gone o City of Screaming Statues, che sono pure i due pezzi più immediati e memorizzabili.

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E poi c’è il violino. Mica è una cosa pulita alla My Dying Bride. Il buon Jesper Jarold non era esattamente un virtuoso, suona sporco, a volte stecca, altre va fuori tempo. Quando irrompe nella sezione centrale di Within – uno dei brani più, beh, strani – sembra quasi andare per conto suo. Eppure funziona, proprio perché incongruo e sbilenco, allo stesso modo in cui gli effetti speciali caserecci e la fotografia smarmellata di un vecchio horror di Fulci ne alimentano l’atmosfera morbosa. E orrorifico è un altro aggettivo che associo spesso a questo album. Lo scabro latrato di Tompa, che non sapeva ancora gestire bene la voce e di conseguenza tira e strepita come un invasato, rende ancora più pesante la cappa di angoscia che opprime il fruitore durante un ascolto che ancora oggi non è semplicissimo ma, proprio per questo, riesce a regalare sfumature nuove e insospettate anche a trent’anni di distanza. E che dire dei tempi spezzati di una Windows? O delle geometrie non euclidee di Neverwhere?

Il successivo With Fear I Kiss the Burning Darkness sarebbe stato meno interessante proprio perché più lineare: i Bjorler erano cresciuti e il loro retroterra thrash aveva, di conseguenza, guadagnato voce in capitolo. Poi Svensson, stancatosi, mollò il progetto. Come Necrolord, avrebbe finito per dedicarsi alla grafica a tempo pieno (oggi lavora nel settore dei videogame), non prima di aver dato sfogo alla sua follia con i tre Lp del suo bizzarro progetto solista Oxipleglatz. Al suo posto sarebbe giunto Martin Larsson e sarebbero arrivati l’exploit di Slaughter of the Soul e il repentino, temporaneo scioglimento. Ma quegli At The Gates erano ormai un’altra band, altrettanto grandiosa ma distantissima da quella che, nel 1992, pubblicò questo disco e aprì, non si sa con quanta consapevolezza, un nuovo, eccitante capitolo nella storia del death metal. (Ciccio Russo)

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