Rovine coperte di edera e foglie morte: IN GRIEF – An Eternity of Misery

La differenza tra una band di revival e una che aderisce per davvero a un immaginario musicale determinato credo si senta, anzi si percepisca al volo. Non è questione di scegliere la veste estetica (compresa strumentazione e suono), ma di interpretare e rievocare un mood determinato. Il resto sono maschere di carnevale. E poi c’è l’abilità semplice nello scrivere la musica, che sia aderente o meno al modello originario. Questo per dire che gli In Grief, che si rifanno piuttosto palesemente alla triade inglese della Peaceville e ad esperienze analoghe dei ’90, interpretano il doom death gotico di quegli anni più con la passione ed il coinvolgimento che con la meticolosità filologica. Cosa, quest’ultima, che comunque non manca. Come nel growl disperato, ferale, vampirizzato. Soprattutto le chitarre, che sono ruvide come mattoni ammuffiti e che profumano delle esalazioni di feretri disseppelliti. Registrazione lasciata grezza il giusto, senza pomparla di plug-in sintetici eccessivi, richiamando senza artifici le produzioni sgraziate dei pionieri. Ma, a parte la filologia in sede di produzione, e dunque il suono, a noi dovrebbe interessare soprattutto la Musica, come dicevo all’inizio. Io quella stagione, per anagrafica più che altro, non l’ho vissuta sulla pelle come altri in redazione. Però The Silent Enigma per me è stata una folgorazione, quando l’ho incontrato sulla mia via. Quel senso di rabbia disperata e malinconia romantica, fatalismo cosmico e terra umida, fronde caduche di alberi morenti, rovine gotiche di campagna ricoperte di edera.

An Eternity of Misery è esattamente questo, una rovina di campagna coperta di edera, raggi di tramonto sanguinoso che trafiggono una coltre plumbea di nuvole cariche di tempesta, foglie morte e dolore funebre. La grammatica, dicevo, è “ferma” ai ’90 (può una perfezione formale evolvere? Può mai essere considerata stagnante?), nei suoni di chitarra, nella costruzione dei brani, nel growl death, negli espedienti di arrangiamento. Ma la qualità dei brani e delle interpretazioni non può essere solo un lavoro di regia. La passione dei tre italiani (eh sì, stavo dimenticando di dirlo) è palpabile e le canzoni si guadagnano ascolto dopo ascolto il diritto di essere esplorate, disvelate. Lusso raro, oggigiorno. Close to Insanity (per me tra i brani più belli sentiti quest’anno), non fosse così intensa e dolorosa, potremmo quasi considerarla un bignami per ripassare una scuola oramai obsoleta, con lo sfasamento straniante dei fraseggi in tapping e con la malinconia dei synth. Però è anche un brano formidabile, trascinante, nel senso che ti tira giù in un vortice di disperazione cosmica. Sì, ne abbiamo bisogno, c’è troppo ottimismo ebete in giro. Ma non è affatto l’unica, vedi Ярна ed il suo annaspare ondivago nella melma di una palude che potrebbe anche essere solo depressione mentale. E vedi Demons, dove, a proposito di gotico, fa capolino il fantasma di Robert Smith (Faith/Pornography), nell’unico episodio con voce “pulita” del disco. Gran bell’esordio. Ci ha creduto la tedesca Iron Bonehead e credeteci anche voi. L’inverno sarà gelido, c’è da starne certi. Intanto, l’autunno è servito. (Lorenzo Centini)

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