Lo strombazzatissimo debutto dei The Gloomy Radiance of the Moon

Parliamo finalmente del primo full del progetto solista di tal J.M.K.P., olandese, nominato con una certa fantasia – e con una certa predilezione per i titoli chilometrici – The Gloomy Radiance of the Moon; l’unico altro EP Night of the Bloodmoon era uscito due anni fa ed è passato abbastanza in sordina, per limitare l’ingenerosità ed evitare di affermare che non se l’è filato nessuno. Tra l’altro in versione fisica esiste solo in cassetta, e, se è ben vero che i nastri stanno godendo di un revival non dissimile da quello di cui beneficiano i dischi in vinile, il supporto rimane tra tutti il più di nicchia. Quindi non desta tutto ‘sto gran stupore che l’EP non abbia avuto chissà quale diffusione… I dischi in versione digitale sì, vendono, ma è un mercato diverso, molto più usa e getta, e con tutta la musica che esce giornalmente è tutt’altro che impossibile passare in secondo (o terzo) piano nel giro di una settimana.

Oggi il Nostro ci riprova con un album pubblicato, oltre che in cassetta, anche in CD e vinile: la cosa ha un peso non indifferente, visto che in giro se ne sta parlando (anche a sproposito, in verità) come di capolavoro, di disco dell’anno, di next big thing e altre facezie che abbondano di superlativi spesso utilizzati a sproposito. Il suddetto debutto è un disco carino che risponde al titolo di When the Nameless Stars Serenade Your Ravenous Usurpation of the Blackness, semplice e conciso, come potete ben notare. Riprende in tutto e per tutto lo stile proposto già nell’EP dal titolo meno grottesco, in sostanza riconducibile ai Limbonic Art in Moon in the Scorpio: chitarre zanzarose sempre in evidenza, batteria elettronica in blast pressoché continuo ma soprattutto tastiere, tastiere, tastiere e ancora tastiere. Quelle tastiere ultramelodiche che si portano in spalla tutti i pezzi (14 in totale tra l’EP e il full) dalla sonorità circa-organistica, a volte sovrapposte ed armonizzate, più sovente lineari ma sempre eccessivamente sovraesposte al punto da risultare barocche e alla lunga anche noiosette per via dell’eccessiva, continua ridondanza. I brani seguono tutti lo stesso schema: come detto pagano un prezzo pesante ai primi Limbonic Art, anche per la sensazione di caos organizzato e costante frenesia, e inoltre per certe sonorità sfiorano soluzioni già sentite nei dischi di Odium e Carach Angren, ma sono i maestri del symphonic black norvegese i più credibili termini di paragone.

Ascoltarsi i loro dischi è piacevole, hanno un feeling molto notturno come lo ebbe e continua ad averlo Moon in the Scorpio, ma non mi perderei in discussioni sull’eventualità che i The Gloomy Radiance of the Moon, di fatto spuntati fuori in modo quasi casuale senza grandi pregressi, possano essere annoverati tra i picchi del 2022: i brani sono molto simili l’un l’altro dal punto di vista strutturale e anche la scelta dei suoni non provoca alcuna variazione tra un pezzo e l’altro. È una proposta discreta che sta avendo un successo (relativo, ovvio) quasi inopinabile, tuttavia per me sono un prodotto di seconda fascia che necessita di migliorare sensibilmente dal punto di vista compositivo ed esecutivo per ambire a traguardi maggiori. Caruccio, ma i capolavori sono altri. (Griffar)

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