Piccole Furie crescono – TOWER vs SHADOWLAND

Nulla di nuovo, no? Il metallo classico ha sempre dato modo a valchirie ed erinni di esprimersi liberamente. Così pure l’ondata nuova, quella di oggi, coi Crystal Viper di Marta Gabriel. O i Savage Master, perfetti per i metallari un po’ tradizionalisti ed un po’ zozzoni. Ma qui parliamo di due band capitanate da donne che non puntano per nulla sulla figaggine estetica per i metallari nerd allupati, buttandola piuttosto sul sound classico e sull’attitudine punk, stradaiola, fresca. Una manna (e mezza). Qualche anno fa ero uscito pazzo per una band simile, i Night Viper, che avevano fatto faville su un palco minore del Roadburn. Che fine hanno fatto? È il momento che tornino pure loro. Ma procediamo.

I TOWER sono una figata pazzesca e quindi ovviamente ce li spaccia la Cruz Del Sur. Sai che sorpresa, ormai. E fanno una caciara pazzesca. Suonano a mille e strillano. Vengono da NYC e Shock To The System è il loro secondo album, a cinque anni dal precedente, che era più quieto, per dire, e settantiano. In quest’ultimo ci potete sentire dentro la NWOBHM più sudata e lo speed anni ’80 più forsennato. Urgenti e concitati, come Raven, Exciter, Anvil. Abbiamo capito, quella velocità insensata, quella corsa dritto contro un muro, la testa contro un muro. Poi, una volta capito che non si può attraversare un muro come fosse aria, tornare in piedi e riprendere a sbatterci la testa come un ossesso per abbatterlo. Sempre meglio che riempirla di merda (cit). Urgenza. Foga. Foga! FOGA! E calore, pure. E melodia. Occhio, se ascoltate le primissime cose ci sentite tantissimo pure il rock’n’roll di strada, Detroit e New York, i Kiss, gli MC5, quella roba lì. In Shock to the System invece quasi niente più. Hanno pure perso il bassista che faceva i cori soul. C’è ancora un filo di hard rock, il resto è Heavy Metal. A lettere maiuscole. E a mille. Senza senso. Fighissimo. Sembrano una gang disperata e vitale de I Guerrieri della Notte. Avete capito. Tipo quando i Guerrieri incontrano quella gang femminile che per poco non li faceva secchi. Le Lizzies. Oppure no, forse quelli con le catene nei cessi della metro. Ecco, meglio.

L’arma principale dei Tower è la cantante Sarabeth Linden. Un’invasata, sempre a mille, sempre su un registro altissimo. Un po’ mi ricorda Santa, una cantante metal spagnola degli anni ’80 che non ricordo come avessi scoperto ma che poi è diventata una piccola perversione. Poi ok, il registro è appunto tutto alto e concitato, vedremo se riuscirà ad ampliarlo, però, ecco, sembra abbia i numeri (e i polmoni) per confrontarsi con cantanti di classe. Ora non voglio sparare nomi a caso, ma se Tina Turner avesse deciso a un certo punto di ridargliene un po’ a quello stronzo di Ike e di andare a cantare coi Raven avrebbe fatto un pezzo tipo Powder Keg, l’ultima, la più selvaggia, quella che puzza di più di asfalto e copertoni bruciati. Però l’asticella del disco è posta in altissimo da subito, dall’iniziale Blood Moon. Asticella alzata oltro il limite, poi è tutto clipping, che Blood Moon è assurda. Clipping emotivo, al suono e alla produzione non gli si può dire nulla. Da quel momento in poi è tutta una rincorsa e qualche momento a riprendere il fiato. Ma mica davvero di riposo. Ballate non ce n’è. C’è Prince of Darkness che è più meditata, cadenzata, forse doom, in senso lato, ma Sarabeth la canta comunque in maniera disperata. C’è una Running Out of Time, e col titolo così dite un po’ se vi è entrato in testa il concetto. Metatron all’inizio sembrerebbe melodica e quieta, poi arrivano gli schiaffi, da starne certi. Hired Gun parte come gli ZZ Top strafatti di coca. The Black Rose torna al parossismo assurdo dell’opener, ma poi quando scatta l’assolo sul cambio di tonalità, cazzo, scusatemi, ma mi tornano in mente i primi due dischi dei Maiden, quando certe idee melodiche fantastiche spiccavano da uno strato sostanziale di rock’n’roll grezzo. E a me esce una lagrimuccia. Che volete farci. Insomma, la sostanza credo vi sia chiara. Superbi.

Non si viaggia troppo lontano con l’esordio degli SHADOWLAND, sempre da NYC. Se poi vi sembrerà un disco più addomesticato è solo perché ancora vi bruciano le orecchie dopo quello dei Tower. Anche Tanya Finder ha però un buon carisma, strilla di meno e canta di più. È l’autrice delle grafiche, è il suo mestiere, e giurerei che la band gira un po’ attorno a lei. The Necromancer’s Castle è un titolo spettacolare per un album. Anche questo è un sophomore, molto meglio del primo. Gli Shadowland sono sicurente meno selvaggi, più metal in senso classico e oscuri, ma in fondo sono sono dettagli, la formula in sostanza è quella: heavy’n’roll, attitudine stradaiola e fedeltà agli anni ’80. Spadoni, castelli e motociclette in copertina. Che bello.

Qui i chitarristi si prendono il gusto di lavorare un po’ di più su assoli e armonizzazioni. Non vi aspettate nulla di rivoluzionario, vero? Bene, allora vi potreste divertire anche qui. Manca forse il pezzo spaccasassi, però Ligeia fa la sua porca figura, all’inizio. Anzi, gran bell’opener, tesa, epica, melodica. Suono caldissimo e attitudine maleducata. La title track subito dopo appesantisce il discorso, epic fantasy lugubre come da copione (cosa che ci piace tantissimo). Warhound, rock’n’roll, metallo e melodia. Tanya canta di più e strilla di meno. Anche lei la porta molto sull’attitudine stradaiola, forse un po’ punk, che quindi evita in scioltezza il Power classico e altre stucchevolezze anche quando la struttura e i suoni sono i più classici che si possa. Titoli come Easy Living e Pretty Faces puzzano dal nome di rock’n’roll. Come Remains, la più radiofonica. Poi ok, posso essere d’accordo con voi che non ci siano picchi particolari, ma lo stile (c’)è tutto. (Lorenzo Centini)

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