Avere vent’anni: CONVERGE – Jane Doe

Jane Doe è per il metal e in generale ogni forma di musica estrema amplificata l’entrata a gamba tesa nel terzo millennio, che coincide con l’inizio dell’era dell’inautentico: da allora in poi – a parte rarissime schegge impazzite – il risultato finale di dischi via via sempre più indistinguibili uno dall’altro sarà sempre inesorabilmente controllato e pianificato al millimetro, nessun margine di errore (grazie a costi di produzione sempre più alla portata di tutte le tasche e una conseguente standardizzazione di ogni tipo di suono), qualsiasi commistione una serie di accostamenti tra generi preesistenti, spesso antitetici, frutto di calcolo, copiaincolla e compromesso. L’ariete di sfondamento: un disco inattaccabile sotto ogni punto di vista, cesellato fin nel più infinitesimale dettaglio, fino a raggiungere la perfezione formale, unico e irripetibile e per questo replicato ben oltre lo sfinimento.
Frutto di autentico travaglio (la fine di una relazione) o di impeccabile recitazione è lo stesso: comunque sia andata davvero il risultato è spiazzante da un punto di vista emotivo, il meccanismo di identificazione scatta automatico, inesorabile. È anche un generatore di stupore universale di fronte all’ignoto, all’inaudito: niente prima di allora aveva suonato così, esattamente nel mezzo tra sconosciuto e familiare, il punto d’arrivo. Vocals ultrafiltrate fino a diventare urla incomprensibili se non a un livello basico, primordiale, a cui risponde il ricordo del dolore fisico più intenso mai provato; giri di chitarre che suonano come il catalogo di ogni riff mai registrato nella storia della musica elettrica occidentale, compresso e sintetizzato in un assalto frontale riconoscibile e memorizzabile dal primo ascolto, lo stesso per le linee di basso e fino all’ultima delle rullate di batteria.
Brani che sono catarsi in infinite declinazioni, ognuno altrettanto terminale e decisivo, ognuno allo stesso livello di ingestibile intensità, mai sperimentata su disco e soltanto poche volte nei rari momenti in cui la vita diventa importante; con un ultimo supremo scatto di volontà nella traccia finale, che porta il titolo dell’album, dove si arriva per un attimo a intravedere la bellezza assoluta, indiscutibile. Poi di nuovo a faccia in giù a rantolare nel fango; ma per un momento l’intera faccenda ha avuto un senso, immettere ossigeno nei polmoni diventa un gesto sensato, perfino onorevole. Jane Doe è il disco che non può non piacere per eccellenza, talmente perfetto da risultare addirittura frustrante perché irripetibile, irreplicabile. È la fine dell’innocenza e l’ingresso nell’età adulta, il rito di iniziazione che razionalizza la serie di traumi più laceranti subiti lungo la strada: una terapia, il punto fermo a cui tornare come un faro nella tempesta per chiunque abbia perso un affetto, un amore, sia stato segnato per la vita da qualcuno o qualcosa.
Gli effetti, su scala planetaria, sono immediati e irreversibili: il metal diventa una questione rispettabile anche nelle alte sfere, dove fino ad allora ne era stata negata la stessa esistenza, pienamente sdoganato nei circoli che contano, accolto a braccia aperte nelle parrocchiette che determinano il gusto comune, dove viene deciso cosa sia giusto ascoltare, come pensare. Nulla tornerà più a essere com’era, nemmeno per i Converge stessi: consapevoli di avere forgiato una pietra miliare, tempo il successivo You Fail Me, brutto quanto onesto, spietato nella sua imperfezione, e passeranno definitivamente alla cassa con dischi tutti uguali, tour autocelebrativi che sono l’equivalente di entrare in una chiesa durante le feste comandate per un cristiano, Jacob Bannon sempre più svociato, il chitarrista/produttore Kurt Ballou a registrare migliaia di gruppi intercambiabili, strettamente pilota automatico per generare venerazioni a prescindere. (Matteo Cortesi)
Giù il cappello, disco magistrale ed irripetibile. Non sarei così servero, “You fail me” e “Axe to fall” erano comunque molto belli. Tra poco esce “Bloodmoon I” in collaborazione con Chelsea Wolfe.
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Quanta verità nella frase “giri di chitarre che suonano come il catalogo di ogni riff mai registrato nella storia della musica elettrica occidentale”!
Probabilmente l’ultimo capolavoro della musica estrema, davvero inattaccabile da ogni punto di vista: songwriting, produzione, furia esecutiva, veste grafica… persino la voce di merda di Bannon diventa qui elemento indispensabile, paradossalmente un cantante migliore non avrebbe funzionato nell’economia globale del disco. Peccato che i Converge non siano mai più arrivati nemmeno a lambire lontanamente questi livelli, diventando la cover band di se stessi, un po’ come gli Slayer post-Seasons.
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L’articolo è così tanto preso nello sperticare elogi ad un disco che conoscono pure i sassi che si è dimenticato di dire qual è l’altro enorme pregio di JD: il sapersi mettere a cavallo di due mondi, quello hardcore punk e quello metal, facendo da tramite per l’uno e l’altro e mettendo quindi d’accordo praticamente quasi tutto l’arco della musica estrema. Nell’articolo infatti si parla solo di metal, ma Jane Doe ha le sue radici nell’hardcore punk e nel post-hardcore; lo scarto sta nel fatto che i Converge prendono questi generi e li fanno suonare dagli Slayer, e il risultato è appunto un disco molto più pesante e cattivo.
E col cazzo che dopo questo disco è il nulla. I Converge hanno fatto almeno due altri capolavori (You fail me e No heroes), un grandissimo disco (Axe to fall) e un buon lavoro (All the love we leave behind). Giusto l’ultimo suona ripetitivo e prevedibile, con le stesse idee trite e ritrite che ormai non stupiscono più.
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guardate bene vicino ai nomi…
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Un must have di qualsiasi persona che ami la musica estrema. Inossidabile. Lo riascolti e lo riascolti ed è sempre più bello.
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