POSSESSED // NORDJEVEL @Traffic, Roma, 14/06/2019

Foto di Paolo Liberati

In questi anni di reunion improbabili dai frutti sorprendentemente positivi ne ho viste abbastanza da non avere più troppi pregiudizi, ma quella dei Possessed è stata comunque un caso a parte. Non tanto per la presenza di un solo membro originale, Jeff Becerra, che aveva riportato sui palchi già da un decennio la creatura che gettò un ponte tra il thrash e quella che sarebbe diventata la scena di Tampa, dando la stura a un fenomeno che verrà chiamato death metal proprio come un brano di Seven Churches. Il punto è che stiamo parlando di una band non solo fondamentale ma nata e morta in pochi anni, dopo due album (e un ep), il primo dei quali è uno dei dischi heavy metal più importanti degli anni ’80. Da allora di anni ne sono passati trentadue, senza contare il tentativo, finito nel nulla, del chitarrista Mike Torrao di resuscitare il marchio all’inizio dei ’90.

E finché si trattava di portare in giro i vecchi successi niente da dire. Becerra, inchiodato su una sedia a rotelle dopo essere stato vittima di una rapina a mano armata, ha messo su una formazione mica male. La sezione ritmica è formata da Emilio Marquez e Robert Cardenas, degli eccellenti Coffin Texts. E alle sei corde ci sono Daniel Gonzalez (Gruesome, Create A Kill) e Claudeous Creamer, altri due tipi con un curriculum non da buttar via. Quando però fu annunciata l’incisione di un nuovo full di inediti mi sono preoccupato che il risultato avrebbe intaccato la memoria delle glorie passate. Perché qua non si tratta di gente che ha avuto una carriera lunghissima, fatta di alti, bassi e assestamenti, bensì di un nome legato a un capolavoro indiscusso dal ruolo storico incalcolabile e poi basta. Qualunque cosa i Possessed avrebbero pubblicato, il paragone sarebbe stato inevitabilmente con Seven Churches. Un confronto che da un punto di vista razionale non ha il minimo senso, lo so. Ma “razionale” e “metallo” non sono due concetti che vanno molto d’accordo.

Da questo punto di vista, un po’ come con 13 dei Black Sabbath, non solo è andata bene ma era difficile che potesse andare meglio. Revelations of Oblivion ha superato ogni mia aspettativa: è esattamente quello che doveva essere, un album ancorato –  come è giusto che sia – alla tradizione ma mai stantio o frutto di riciclo, pieno di bei pezzi e difficile da togliere dallo stereo. La presenza alle chitarre di uno come Gonzalez, abituato alle operazioni nostalgia fatte con criterio, forse da questo punto di vista ha aiutato, chissà.

Le attese sono dunque piuttosto alte per una serata aperta dai Nordjevel, che non conoscevo affatto prima di stasera e stanno portando in giro il secondo album Necrogenesis. Il genere è un black metal norvegese feroce e piuttosto classico, memore soprattutto degli Immortal, rinvigorito da qualche azzeccato innesto thrash negli assoli e in certi stacchi ritmici. Mi diverto abbastanza, complice una presenza scenica vecchia maniera, tra spuntoni lunghi mezzo metro e face painting, senza trascurare una new entry nella personale classifica dei bassisti ciccioni carismatici black metal, i cui vertici sono tuttora occupati dall’indimenticabile Vrangsinn dei Carpathian Forest e del tizio che suonava coi Dark Funeral all’inizio dei 2000.

Foto di Gianluca Baruffa

Quando è il momento degli headliner la sala è stracolma e tutti urlano e innalzano le corna all’aria. Si parte con No More Room in Hell, l’opener di Revelations of Oblivion, ovvero il brano che aveva fatto esplodere nel mio cervello un colossale machedavero poi corroborato dalle successive mazzate. E di estratti dal disco nuovo ce ne sono ben cinque, segno che anche loro, giustamente ci credono (non mi fanno Damned che è la mia preferita ma non si può avere tutto). Qualche problema coi volumi subito risolto ed arriva Pentagram. Il viaggio nel tempo è iniziato e la sospensione di incredulità regge fino alla fine perché il materiale recente si sposa in maniera felice e fluida con i vecchi classici, in una scaletta che privilegia, come normale, Seven Churches, mentre Beyond the Gates e The Eyes of Horror vengono ripercorsi con due estratti a testa.

Mi guardo intorno e, più che i cipigli concentrati di prammatica, vedo sorrisi adoranti. Lo show è intensissimo, senza un attimo di respiro. Becerra, del resto, è uno che ha visto la morte in faccia e, costretto in una condizione che annichilerebbe parecchia gente, si è ricordato che aveva qualcosa da riprendersi e un posto nella storia da reclamare. Lo ha fatto, nel miglior modo possibile. E anche queste sono lezioni di vita. Il bilanciamento tra vecchio e nuovo è perfetto anche negli arrangiamenti. Le chitarre rievocano quel suono antico e malevolo che diede vita a una rivoluzione. Basso e batteria creano trame più fitte e debitrici del death metal americano old school, che in classici immortali come Evil Warriors e The Heretic affonda le sue radici. Proprio con l’inno Death Metal, dove Becerra passa il microfono alle prime file, e Burning In Hell si chiude, e sembra che tutto sia durato una manciata di minuti. (Ciccio Russo)

Scaletta: 

No More Room in Hell
Pentagram
Tribulation
Demon
Evil Warriors
The Heretic
Abandoned
Storm in My Mind
Shadowcult
The Eyes of Horror
Graven
The Exorcist
Fallen Angel
Death Metal
Burning In Hell

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