AC/DC @ Autodromo Enzo e Dino Ferrari, Imola – 9.7.2015

Butto giù l’ultimo sorso di caffè e allento il nodo della cravatta. Dall’altra parte della stanza, la mia collega sta ciancicando al telefono di sfratti e decreti ingiuntivi. La guardo sorridendo. Ho la scrivania stracolma di pratiche da sbrigare e le gambe ancora a pezzi. Nelle ultime ventiquattro ore avrò dormito sì e no una ventina di minuti, con la faccia spappolata sul finestrino del treno partito da Bologna alle prime luci dell’alba.
Chiara alza gli occhi dal computer e mi scruta perplessa.
Io continuo a sorridere.

ACDC Imola 1

Arriviamo all’Autodromo verso l’una e la temperatura è già bollente. L’ordinanza del Comune che vieta “la vendita di bevande con grado alcolico superiore ai cinque gradi” e di “qualunque altro tipo di bevanda in lattina o contenitore di vetro” ha creato di fatto una situazione grottesca: nei supermercati della zona, l’ingresso al reparto degli alcolici è ostruito da vere e proprie trincee artigianali, mentre le vie intorno all’area del concerto brulicano di birrivendoli dal marcato accento partenopeo che smerciano Beck’s a cifre folli. Neanche il tempo di prendere solennemente l’impegno di non farsi fregare pure questa volta, che ci ritroviamo in mano due bottiglie di birra fresca come l’urina e il portafogli mezzo svuotato. È una battaglia persa in partenza, maledizione.
Dopo un quarto d’ora di passeggiata tra le piste dell’Autodromo, sbuchiamo davanti al gigantesco palco con le corna marchiato AC/DC e all’enorme spianata di cemento gremita di gente fin dalla tarda mattinata. Rispetto alle più recenti esperienze concertistiche sul suolo nazionale, la situazione appare subito incoraggiante: gli stand culinari sono numerosi e ben diversificati, i bagni chimici abbondanti, i prezzi nella media di eventi del genere. Mancano quasi del tutto zone d’ombra, ma il cielo inizialmente plumbeo contribuisce a mitigare l’arsura.
Decidiamo di dar fondo alla nostra ars oratoria per ottenere i braccialetti che permettono l’accesso alla zona sotto il palco, distribuiti gratuitamente ai primi arrivati e andati esauriti in un battibaleno. Un gruppo di rockettari fuori tempo massimo sembra più intenzionato a prendere il sole che a dare l’assalto ai posti migliori, quindi l’impresa si rivela non troppo ardua.

A smorzare l’estenuante attesa ci pensa la variopinta combriccola di Virgin Radio, che imbastisce un dj set a base di pezzi faciloni intervallati da urticanti arringhe sull’importanza di essere ruoc. I nostri vicini calabresi non sembrano gradire e attingono a un notevolissimo repertorio di insulti nei confronti di Giulia Salvi che ci lascia sinceramente ammirati. Mi viene quasi voglia di prendere appunti, ma poi preferisco accompagnare il mio sodale verso il più vicino stand della birra. Lì ritroviamo un attempato crucco travestito da Angus Young, che staziona accanto al bancone da quando siamo arrivati e beve senza soluzione di continuità. Nel momento in cui comincia ad assumere quel tipico colorito rossastro che prelude al coma etilico, la nostra attenzione è sviata da un pugno di giovanotti ben vestiti che salgono sul palco tra le ovazioni del pubblico: si tratta dei Vintage Trouble, gruppo spalla degli AC/DC in questa prima parte del Rock Or Bust World Tour.
Due membri su quattro somigliano in modo impressionante a Viggo Mortensen, mentre il cantante sembra una versione stagionata di Arnold. Siamo tutti d’accordo sul fatto che il nome attuale della band suoni oltremodo cacofonico, motivo per cui passiamo la prima canzone a discutere di quale possa essere il nome giusto: la diatriba è facilitata dal fatto che i volumi siano ancora parecchio bassi e permettano un’analisi ponderata della questione. Alla fine ci accordiamo per un banale ma realistico “Viggomortensens”, mentre i Nostri hanno già attaccato Blues Hand Me Down, opener del loro album d’esordio The Bomb Shelter Sessions. Quello dei Vintage Trouble è un sound molto derivativo ma altrettanto piacevole, in cui cui soul, blues e rock ‘n’ roll si fondono dentro un marasma piuttosto accattivante. La mezzora loro concessa scorre via veloce grazie all’istrionismo del frontman Ty Taylor, che inizialmente prova ad aizzare la folla nel suo americano sbiascicato ma poi, non riuscendo proprio a farsi capire, decide di buttarsi tra la gente come il più scatenato degli hardcore kids.
Applausi, sudore, ovazioni e arriva ben presto il tempo di togliere il disturbo e il telo che copre l’immensa distesa di Marshall intorno alla batteria di Chris Slade.

Dalla nostra posizione scorgiamo fiumi di persone affluire in maniera pressoché ininterrotta nell’Autodromo. La collina di fronte al palco, invece, è già del tutto gremita. Mentre osservo la quantità di volti dietro di me, penso a quale altro gruppo sia oggi in grado di richiamare questa folla e generare tali frementi aspettative: nessuno, probabilmente. Quando si spengono le luci e parte il video introduttivo, il boato è assordante. Un meteorite si schianta sulla Terra e, tra esplosioni e fuochi d’artificio, gli AC/DC danno il via alle danze con Rock Or Bust. Neanche il tempo di assorbire la botta che il riff iniziale di Shoot To Thrill scatena letteralmente il panico. Vedo distinti signori di mezza età recuperare per un istante l’ardore giovanile e lanciarsi senza pensieri nel pogo, travolgendo anime belle trent’anni più giovani di loro.
Su Hell Ain’t A Bad Place To Be comincio a rendermi conto che dalla data di Udine è trascorso un lustro, lasso di tempo non proprio irrilevante. Brian Johnson tira la voce al limite e in più di un’occasione sembra arrancare, tappando le falle con indiscutibile mestiere. Chris Slade è molto potente e abbastanza preciso, ma non ha un briciolo della spocchia sanguigna di Phil Rudd. L’assenza di Malcom Young si fa maledettamente sentire, nonostante la buona volontà del nipote Stevie. Il tempo passa, amici miei, e nessuno di noi può farci nulla.

ACDC Imola 4

Poi però c’è lui, Angus. Sembra quasi che la forzata defezione del fratello lo abbia investito di ulteriori responsabilità: nel momento in cui lo spettacolo rischia di diventare poco più che un amarcord per vecchi cuori riconoscenti, l’ormai sessantenne scolaretto si carica sulle spalle la band e la conduce verso una dimensione superiore. Suda, aizza la folla, si dimena, accarezza la sua Gibson SG come fosse una bella donna in cerca di attenzioni speciali.
Thundestruck
scuote le budella di un pubblico che dà troppo spesso l’impressione di aver pagato oltre 90 euro soltanto per immortalare nella memoria di migliaia di dannatissimi smartphone quello che sta succedendo sul palco. Se all’ingresso la security sequestrasse i telefonini anziché i tappi delle bottiglie, credo che l’intera umanità ne beneficerebbe.
Durante High Voltage, un tizio al mio fianco, ciuffo ingellato e brillante all’orecchio, si gira verso un suo amico e bofonchia con l’aria di chi la sa lunga: “Aò, questo deve esse un pezzo der nuovo album, che a me manco me piace…”. Sono indeciso se strappargli la carotide a morsi o infilargli su per il retto il paio di corna luminose che ha in testa. Questa titubanza mi costa secondi preziosi e i rintocchi funebri di Hells Bells mi costringono a rinviare i propositi castigatori. Il pezzo conferma l’ineluttabilità della condizione umana e la sua inevitabile limitatezza temporale: ricordo che l’ultima volta, a Udine, Brian prese la rincorsa e si aggrappò al volo alla corda dell’enorme campana che sovrasta il palco, ondeggiando audacemente per qualche secondo. Oggi si limita a cantarci sotto, spremendo l’ugola finché è possibile. Ma, tutto sommato, va bene così.
A sorpresa gli AC/DC tirano fuori dal cilindro una sudatissima versione di Have a Drink on Me, brano che mancava dalle scalette dei loro tour dal lontano 1985. Il resto della setlist è un continuo susseguirsi di pezzi che hanno scolpito la gioventù di ogni rockettaro che rispetti, e in questa carrellata generazionale i tre estratti da Rock or Bust non sfigurano per nulla.
Al termine del consueto omaggio alla mai troppo amata Rosie, la passerella di fronte al palco prende quota e permette a un Angus Young quasi completamente svestito di attraversare la folla con la celeberrima duckwalk. L’epico assolo di Let There Be Rock viene eseguito su una piattaforma che s’innalza in mezzo al pubblico, e finisce dritto nella mia cartella mentale “Cose da raccontare a (eventuali) nipoti”. In quei venti minuti è racchiusa l’essenza stessa del rock ‘n’ roll, la sua anima più selvaggia e primordiale. Un uomo, una chitarra e migliaia di occhi sgranati sotto di lui.
Adesso ho chiaro davanti a me il motivo per cui così tanta gente chiede ferie, spende soldi, macina chilometri, sopporta fatica e attende ore sotto il sole cocente: nonostante l’età, la concorrenza e gli scherzi del destino, gli AC/DC rimangono la più grande rock band del pianeta.

ACDC Imola 3

Dopo la scarica adrenalinica di Highway to Hell, una batteria di cannoni appare dietro il muro di amplificatori. Sono pronto a quello che sta per succedere, l’ho già vissuto nel 2009 a Barcellona e nel 2010 a Udine. Eppure, non appena partono le note iniziali di For Those About To Rock (We Salute You), capisco che ogni volta è come la prima. Non riesco a immaginare finale migliore, per un concerto come per qualsiasi altro avvenimento della vita. Durante il mio funerale, mentre la bara scende sotto terra, vorrei che la filodiffusione del cimitero trasmettesse al massimo volume questa canzone: sarebbe il modo ideale per varcare i cancelli del Valhalla.
A ogni “Fire!” urlato da Brian Johnson, i cannoni sparano un colpo verso il cielo e la terra trema. Il ritmo si alza e il palco letteralmente esplode in un tripudio di fiamme e botti. Tutto il resto svanisce all’istante: smette di avere importanza la stanchezza, il caldo atroce, la tettona dietro di noi che si lamenta del pogo, la fila allucinante per uscire dall’Autodromo, le strade di Imola paralizzate dal traffico fino a tarda notte, il treno in partenza all’alba, il sonno, le pratiche sulla scrivania e pure la collega che dall’altra parte della stanza mi guarda dubbiosa e probabilmente si chiede perché diavolo continuo a sorridere come un idiota.

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