Satanassi, tupatupa e vaffanculo: VENOM – From The Very Depths

I Venom non sono un gruppo musicale normale. Con il loro disco d’esordio dell’81, il fondamentale Welcome To Hell, questa gente contribuì a creare un suono ed un’attitudine che negli anni a seguire, sino ai giorni nostri, ha influenzato migliaia di persone. La scena inglese, in piena era NWOBHM, in buona parte li ripudiò, bollandoli come casinari teste di cazzo che non sapevano suonare, ed è proprio per questo che ai loro primi concerti, oltre ai metallari “motorheadiani”, c’erano i punk inglesi della seconda ondata, cioè quelli che seguivano gente come Discharge, Chaos UK, Varukers ed Exploited, in un trionfo di creste, borchie, capelli unti e luridume che manco durante la peste del ‘600. E poi c’era il “satanismo”, presente in maniera esplicita in buona parte di testi, copertine, volantini e correlati. Satana, sì, inteso come birra a fiumi e zoccolone con le tettone a borraccia. Inteso come ribellione, a tratti ingenua e adolescenziale, al conformismo della società, che ci vorrebbe allegrotti moderati fino ad un certa età e poi, da “adulti”, richiamati all’ordine ed inghiottiti dal vortice casa/famiglia/lavoro/mutuo/tasse, zitti e quieti, ad attendere la morte. Inteso come “fai ciò che cazzo vuoi” e fallo decidendo con la tua testa, fregandotene dei giudizi altrui, delle convenzioni sociali e dell’immagine che “gli altri” vorrebbero vedere in te. Una guerra contro i mulini a vento condotta a colpi di satanassi, tupatupa e vaffanculo. Inteso come punk, cioè come “non sono come voi e ve lo sbatto in culo sino a farvi esplodere tutti”, oppure come “vi guardo morire durante un olocausto nucleare bevendo una birra del discount ridendo di voi”. Inteso anche e soprattutto come “con le ridicole basi su cui avete fondato le vostre misere e patetiche esistenze mi ci sciacquo i coglioni sudati”. Il tutto senza prendersi mai troppo sul serio, per non rischiare di finire, nel 2015, a stilare il proprio curriculum di serie z in terza persona, con tanto di foto a colori ed attestati trovati nell’uovo di pasqua in bella mostra e pure in grassetto sotto la voce “titoli aggiuntivi”.

I Venom sono marciume sonoro e non, sbattuto in faccia a gente che ci vorrebbe tutti uguali ed ordinati, con i risvoltini, i mocassini ed i capelli ad ananas, a parlare degli scatti di carriera, ad andare in palestra per guardarsi allo specchio, a bere piscio di cane in tristi bicchieri di plastica trasparente con la cannuccia rosa, il tutto fotografato e messo su merdbook con la solita didascalia “bella vita hihihihih icsd”. I Venom sono una sprangata in faccia anche a chi li ha scoperti da tre mesi, visto che ultimamente sono quasi di moda nell’ambito della musica dura, e si fotografa in primo piano con la loro toppa/maglietta in evidenza per mostrarsi all’inesistente mondo dei social, magari credendosi diverso dai soggetti risvoltinati di cui sopra, quando in realtà forse è persino più penoso e triste di loro. Questo disco è un tributo alle radici dei Venom, a ciò che li ha influenzati, musicalmente e non. È un voler ribadire che nel 2015 le cose non sono cambiate manco per il cazzo. È un omaggio a chi, nel corso degli ultimi trentaquattro anni, è riuscito a carpirne lo spirito, a chi ha sempre sostenuto che avere una propria individualità sia il cardine di un’esistenza vissuta e non lasciata trascorrere e a chi pensa che quel ragazzino con le magliette con i mostri e i jeans strappati debba sempre vivere, almeno ogni tanto, in ognuno di noi, sino alla morte. Cronos, ti voglio bene anche se assomigli ad una vecchia turista inglese in gita a Venezia. Avevo scritto anche altre cose, ma mi si è imputtanato il pc e ho dovuto riscrivere la fine accorciando i tempi, perché devo andare a puttane. Ora e sempre in league with Satan. (Il Messicano)

19 commenti

Lascia un commento