La finestra sul porcile: Milano Rovente

Un giorno condivisi sulla mia bacheca di Facebook un video di una cover metal della sigla di Vola mio mini pony, quel cartone animato degli anni ottanta, causa diretta dell’ondata power metal di inizio millennio in cui cavallini effeminati e con criniere sorprendentemente simili alla capigliatura di Bon Jovi di quegli anni sono intenti a combattere contro nemici immaginari. Un mio amico disse che era una ficata, un altro lamentò l’offesa ad un’icona sacra e io rimasi molto male nel vedere due persone che neanche si conoscevano accanirsi così su dei poveri pony come neanche quelle biondine slavate e piatte come tavole da surf fanno nelle categorie più bizzarre di xvideos. Tutta questa introduzione non c’entra nulla col film di cui sto per parlare ma mi serviva per giustificare il video della cover in questione da piazzare nel pezzo, tanto per accendere ulteriori dibattiti in rete.

Se fossi milanese sarei orgoglioso di tutti quegli immigrati che hanno fatto grande la storia di questa città al cinema: Nico Giraldi, Tirzan, Peppe er Pantera, Salvatore Cangemi. Quest’ultimo è il protagonista del primo articolo della rassegna dedicata ai vecchi film che tutti dicono di aver apprezzato da quando Tarantino ha iniziato a beatificarli ma che in realtà nessuno ha mai visto neanche di striscio. Avrei potuto iniziare con i classici con Maurizio Merli o Tomas Milian ma poi la scelta è caduta su Milano Rovente perché in tv non passa mai e, quindi, per poter dire di averlo visto avete tre strade: scaricarlo (non che io l’abbia fatto, ma pare abbia un sacco di fonti), comprare il dvd (l’altro metodo ha più chances di riuscita) oppure vederlo in qualche squallido cinema d’essai pullulante di nerd logorroici con improbabili basette, pantaloni a campana e la tendenza a rimpiangere quegli anni nonostante in quel periodo non fossero neanche un’idea nella testa dei loro adolescenti genitori.

Si tratta del primo poliziottesco di Lenzi e si capisce subito che si tratta di un suo film perché non c’è un personaggio che sia uno che non sia un pendaglio da forca a piede libero intento a compiere gli atti moralmente ed eticamente più spregevoli. A parte Salvatore Cangemi, ovviamente. Lui non è che è un onesto verduraio siculo (secondo la sua definizione), la cui unica colpa è quella di fare il pappone come hobby. A rompergli le uova nel paniere ci penserà un malavitoso francese (e ovviamente gay) interpretato dall’eterno Philippe Leroy, uno che ha dato molto al cinema italiano il quale, a sua volta, gli ha reso omaggio facendolo recitare in Teste di Cocco. Per farla breve e non tediarvi troppo con i dettagli della trama, il francese e la sua gang tentano di imporre l’upgrade obbligatorio al personale alle dipendenze del Cangemi, che da branco di prostitute dovrebbero trasformarsi in consulenti del divertimento con tanto di campionario di cocaina al seguito. Il siculo, uomo tutto d’un pezzo, non ci sta e inizia una guerra senza quartiere contro Leroy, assoldando anche un italoamericano rientrato a Catania dopo la trasferta a Chicago. Il finale è catartico, degno di una tragedia greca come sempre accade nei poliziotteschi italiani.

Lenzi è uno che bada molto alla sostanza, però il suo lavoro l’ha sempre saputo fare maledettamente bene e, anche se in questo caso manca ancora un po’di dimestichezza con le dinamiche del genere, la sola sequenza dell’omicidio di Nino Balsamo meriterebbe di essere insegnata a memoria a tutti gli aspiranti registi di questo paese. Un po’meno, magari, la parte centrale del film che si infiacchisce debolmente avvitandosi su una serie di eventi difficilmente credibili (la fuga di Lino, le strategie del padrino Billy Barone che esporta la Guerra Fredda nell’ambiente mafioso e prova a convincere il sanguigno Cangemi che con diplomazia ed embarghi si risolve tutto) senza comunque dimenticare mai, come ogni buon film degli anni settanta richiede, la giusta dose di violenza gratuita e sottotesti sociopolitici. Ad esempio, ad un certo punto, c’è una lunga sequenza nella quale le prostitute incappano in una finta retata dei francesi travestiti da poliziotti, e le donne iniziano a fare continui riferimenti alla legge Merlin e alla tutela delle donne lavoratrici, tanto per ribadire il forte impegno civico della pellicola. Lenzi, in particolar modo, su queste cose ci ha costruito una carriera e la nomea di regista anarco-individualista toscano che non fa uso di bestemmie. Basti ricordare con quanta facilità tirava dentro disabili e persone meno fortunate qui e qui , senza dimenticare gli illuminanti messaggi anticapitalistici che comunicava l’immagine di Zora Kerova appesa per i capezzoli dal solito gruppo di indios (sono sempre gli stessi, provate a farci caso) che nei primi anni ottanta veniva ingaggiato e cosparso di farina per i cannibal movies.

Di grande rilevanza le musiche di Carlo Rustichelli (lo stesso dell’Armata Brancaleone) e le giacche improponibili indossate nei contesti più disparati dai protagonisti. Poi uno potrebbe anche notare che casualmente nel 1971 uscì Il Padrino e nel 1972 Il Braccio Violento della Legge e che casualmente in Milano Rovente abbiamo dei siciliani emigrati che mascherano affari illeciti dietro attività imprenditoriali e francesi che gestiscono il mercato della droga, ma vuoi mettere il cinema di genere italiano? (Matteo Ferri)

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