Avere vent’anni: luglio 2004
MESHUGGAH – I
L’Azzeccagarbugli: Ricordo benissimo tanto l’aspettativa quanto il giorno in cui ho comprato I dei Meshuggah, EP contenente un solo brano da 21 minuti, nato da una jam session casuale che non era in alcun modo finalizzata a registrare qualcosa e che, inconsapevolmente, avrebbe fatto da ponte, anche concettuale, ad uno dei più ambiziosi e non riusciti album degli svedesi: Catch 33. Ero al Wacken 2004, precisamente al Metal Market, dove nel giro di due anni ho speso il PIL di una piccola nazione. Dopo un primo giorno meravigliosamente massacrante, sono tornato presso la locanda dove alloggiavo (e dove ad attendermi c’era il prode Roberto Angolo, messo ko da una terribile influenza appena arrivati in Germania) e ho messo su il disco sul mio discman (hail!). E le sensazioni provate allora restano le stesse che provo oggi dopo vent’anni. Per me I resta la sublimazione del percorso intrapreso dai Meshuggah, il punto di arrivo e quello di partenza verso nuovi lidi, l’origine, il germe di tutto ciò che sarebbe venuto dopo e la sintesi di quello che era stato. Per alcuni aspetti il loro lavoro più “semplice”, dove tutto è connotato da una certa fluidità che non ci sarebbe mai più stata. Un brano esaltante, costruito su contrasti e momenti di placidità vicini a una certa fusion (almeno a livello di struttura) che riescono a sorprendere ancora oggi e che portano a una brusca, quasi inaspettata, ma perfetta chiusura.
PORTAL – The Sweyy
Griffar: L’anno dopo quella bomba di inaudita violenza psicotica e spettrale rispondente al nome di Seepia, gli australiani Portal ritornarono con questo EP di tre nuovi brani. Uscito in prima battuta come split CD con i Rites of the Degringolade e poi come episodio a sé stante con l’aggiunta di due pezzi dal vivo, The Sweyy è la prosecuzione ideale di Seepia senza particolari ulteriori sorprese nel loro particolarissimo suono. Tutti i riff indulgono in quella sorta di surrealismo musicale che si sono inventati loro, e che grande impatto ha avuto in campo death metal. Sconvolti, schizzati, in bilico tra il death tecnico, il brutal death ed il grindcore, i Portal hanno un’innata capacità nel creare musica tesissima, frenetica, che sembra studiata per fare avere all’ascoltatore un collasso di nervi il prima possibile. Due dei pezzi sono stati ripresi e resi ancora più assurdamente violenti nell’album del 2009 Swarth, ovverosia The Sweyy e Wership, mentre Doors è una breve strumentale dark ambient rimasta episodio a sé stante; valgono comunque una riscoperta e una ricerca se siete dei cultori del lavoro degli schizoaustraliani, tra l’altro si dovrebbe trovare ancora a prezzi contenuti.
INCANTATION – Decimate Christendom
Marco Belardi: La crisi degli Incantation ufficialmente non è mai esistita. Li seguo dalla mia adolescenza, all’incirca dalla pubblicazione di Diabolical Conquest. L’album al sottoscritto piace un sacco, eppure già all’epoca ne lessi di cotte e di crude. Tutto ruotava attorno alla figura mancante di Craig Pillard, grossomodo. Diciamo che da The Infernal Storm gli Incantation si sono messi a pubblicare – in serie, senza sostanziali pause – album talmente ordinari da non lasciare il segno in nessuna occasione. Decimate Christendom era uno di quegli album lì: titolo ficcante, ideato e scritto col patrocinio della Regione Veneto, e poco altro. Tanta violenza sonora, più velocità del solito. Ma questa era una caratteristica ampiamente ammirata negli ultimissimi anni. Sappiamo benissimo che le migliori cose scritte dagli Incantation corrispondono a Vanquish in Vengeance e Dirges of Elysium. E che con tutta probabilità rialzarono la testa a partire dal mini Blasphemous Cremation, anno 2008. Quindi anima in pace, erano gli anni di mezzo: troppo al di sotto di Onward to Golgotha e gli altri capolavori con Pillard, e, come vado dicendo delle ultimissime loro pubblicazioni, troppo al di sotto rispetto a Vanquish in Vengeance e Dirges of Elysium. Ma questo gruppo non è mai e poi mai sprofondato in una profonda crisi, e se ne sono dette troppe. Oath of Armageddon la migliore del disco, lenta, vorticosa, e con John McEntee che a un terzo della durata caccia un urlo straziante.
SEAR BLISS – Glory and Perdition
Griffar: Nel 2004 i Sear Bliss erano giunti al quinto album, il sesto se consideriamo anche la demo The Pagan Winter, ristampata in CD dall’olandese Two Moons con una lunga bonus track che ne allunga il minutaggio a livelli consoni a un full. Ho già glorificato le loro gesta in occasione del ventennale di Forsaken Symphony, che a mio parere rimane il loro capolavoro grazie a quel forte sentore di vecchi Satyricon senza esserne una sterile copia pedissequa. Mi ripeto anche oggi che a compiere vent’anni è Glory and Perdition, di poco, ma veramente di poco inferiore rispetto al precedente. Il disco è ispiratissimo e il black atmosferico creato da Herr Nagy è sempre un piacere da ascoltare. Non ho mai capito perché il gruppo ungherese non abbia mai fatto breccia nel cuore degli ascoltatori di heavy metal, non necessariamente ristretti a coloro che amano principalmente il black metal. Vero, Herr Nagy canta in screaming, ma mai esasperato o così estremo da risultare indigesto ai non avvezzi, ciò che conta è che tutti i pezzi sono imperniati su eccellenti melodie evocative che piaceranno a chi apprezza un certo tipo di black melodico originario di Svezia e Norvegia, tanto per fare un esempio. Né ho mai capito perché un gruppo che comunque ha un suo sentore di originalità, grazie all’uso costante di arrangiamenti di tromba e trombone, non abbia mai avuto la considerazione che storicamente merita. Oggi, dopo un silenzio durato sei anni, è uscito il loro nono album Heavenly Dawn. Chissà che non sia la volta buona per ottenere finalmente il dovuto riconoscimento, intanto si può sempre riscoprire Glory and Perdition, che male non fa.
TO SEPARATE THE FLESH FROM THE BONES – For Those About to Rot
Barg: Stereotipo vuole che in Finlandia, a parte alcolizzarsi, frequentare le saune e modificare le automobili, non abbiano mai un cazzo da fare. Un pregiudizio rafforzato dall’esistenza di questi To Separate the Flesh from the Bones, supergruppo formato da tre eminenti personalità finlandesi: Pasi Koskinen (aka Herr Arschstein, già cantante storico di Amorphis, Ajattara e Shape of Despair), Niclas Etelavuori (aka Rot Weiler, anche lui Amorphis) e Gas, il batterista degli HIM, che qui si firma come Pus. Questo loro EP di debutto For Those About to Rot è un pregevole esempio di grind-death carcassiano, tiratissimo, sufficientemente cazzone e con un tiro della madonna. Sono dieci canzoni, dura meno di dieci minuti e tra i titoli troviamo cose Infected Rectum, Genital Massacre, Rotten Vagina, Spermjerker, Flesh that Lies Beneath e la più introspettiva (?) Die like a Wimp. Il disco si gode bene nonostante sia uguale identico a due milioni di altri, ma per l’appunto è un divertissement di gente che, pur avendo un sacco di altre cose da fare, evidentemente aveva tempo da perdere. Ne riparleremo fra qualche mese per la loro seconda e ultima opera.
ARCKANUM/SVARTSYN – Split
Michele Romani: Arckanum e Svartsyn sono senza dubbio da considerare due band di seconda fascia all’interno della variegatissima scena black svedese a cavallo tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, anche se, nella creazione di quel tipico suono svedese che ha fatto la storia di questo genere, una parte di merito va sicuramente anche a loro. La parte più interessante di questo split è quella degli Arckanum, visto che i brani tanto per cambiare sono uno più bello dell’altro (il riff di Aetergap è veramente difficile levarselo dalla testa), nonostante lo stile portato avanti da Johan “Shamaatae” Lagher sia più scarno e diretto rispetto al caos primordiale dei primi tre (capo)lavori. La parte degli Svartsyn invece è un po’ più canonica: il loro marchio di fabbrica è sempre quello, un tipico black svedese brutale con pochissime concessioni alla melodia, che ha sempre guardato in direzione dei maestri Marduk. Non proprio indimenticabile a dire la verità, ma forse sono solo io ad avere preconcetti sugli Svartsyn, non essendo mai riuscito a capire quest’aura di “culto” in cui sono stati avvolti nel corso degli anni.
VULTYR – Philosophy of the Beast
Griffar: Il canto del cigno dell’oscura entità finlandese Vultyr, nata per volere di componenti di Wyrd e Azaghal, sancisce la fine di quello che possiamo tranquillamente definire un fuoco di paglia. Nati nel 2001 e subito autori di un discone spaventoso (Monuments of Misanthropy, sublime) i Vultyr avevano un approccio marcissimo che ricordava più le Black Legions francesi che il freddo e cupo black metal finlandese. Forse proprio questa caratteristica li fece apprezzare a un pubblico piuttosto vasto, caratteristica mantenuta fino al terzo disco Leviathan Dawn, seguito a breve dallo split 7” coi Nehemah. Questo Philosophy of the Beast fu spiazzante: per certi versi anticipa i dischi più recenti dei DarkThrone, con quell’attitudine punkettona che si riflette in brani brevi impostati su schemi compositivi più consoni a una rock band, il cantato spesso assai lontano dallo screaming e talvolta paragonabile al Kurt Cobain di Rape Me ancora più in acido, i riff di quattro accordi che si ripetono seguendo uno schema-canzone lontanissimo da cosa siamo soliti considerare black metal, le velocità in perenne mid-tempo senza mai un’accelerazione (semmai il contrario, possiamo scomodare persino i Black Sabbath, ascoltatevi la sezione centrale con l’assolo di Dedication). Tutto ciò fa di Philosophy of the Beast un disco strano, che senza potersi definire brutto è stato sicuramente deludente per chi, come me, apprezzava il loro black putrido e catacombale. È un disco che sinceramente non ho mai capito, ma come si fa a capire l’attacco in puro stile AC/DC di Vultyr Culture, dopo che li segui da tre anni e sai cosa sono stati in grado di suonare in precedenza? Probabilmente fu un divertissement in ottica cessazione dell’attività, avevano già deciso di mettere in ghiaccio il progetto e hanno pubblicato qualcosa che pochi loro fan avrebbero rimpianto. Sono passati tanti anni e ancora non riesco a scorgere un motivo sensato per un disco come questo.
CATTLE DECAPITATION – Humanure
Luca Bonetta: Nel 2004 avevo quattordici anni, già da un po’ ascoltavo metal e mi ero già appassionato alle sue frange più estreme. Erano gli anni in cui le riviste cartacee andavano ancora forte e io ne ero un agguerrito acquirente. Ora, non ricordo esattamente dove, ma ho ancora in mente il ricordo della recensione di Humanure: si prese la valutazione più bassa possibile e le poche righe della recensione descrivevano il disco come un’accozzaglia di caos e fastidio, condita da una copertina che suppongo all’epoca avesse turbato notevolmente il recensore. Se siete anche solo vagamente interessati al death metal, difficilmente non avrete mai sentito parlare dei Cattle Decapitation. La band americana è riuscita, negli ultimi anni, ad assurgere al ruolo di colonna, presentando uno stile riconoscibile all’istante e che tuttora gli vale il ruolo di headliner in più di un evento. Tutto questo però è avvenuto dopo numerosi anni (e dischi) in cui i nostri erano semplicemente dei bravi mestieranti. Ed è proprio qui che si colloca Humanure, quarto disco che ha avuto il merito di anticipare le soluzioni che, negli album successivi (The Harvest Floor su tutti), avrebbero reso grandi questi ragazzi. Se non si conoscono e apprezzano i Cattle Decapitation, Humanure è niente più di un canonico disco death/grind con alcune soluzioni interessanti che tuttavia non sbocciano mai. Da fan invece, sapendo cosa sono diventati questi ragazzi, ovvero una delle band death metal più originali attualmente in circolazione, non posso che considerarlo un tassello fondamentale nel percorso evolutivo che ci ha portati ad avere, oggi, quelli che sono, di fatto, tra gli eredi dei grandi nomi del passato.
ANIMALS KILLING PEOPLE – Human Hunting Season
Griffar: Nell’ambiente brutal death dei primi anni 2000 c’era un bel giro di proposte nuove. Basta dare uno sguardo al roster di quel periodo della Sevared Records, piccola ma ben organizzata label statunitense dedicata al genere, che di roba fighissima ne pubblicò parecchia. Un discreto fomento lo generarono gli Animals Killing People, duo americano nato per volere di Wilson Rairan e Manuel Quique, animalisti integralisti e vegani. Le tematiche dei testi sono tutte incentrate su animali che massacrano uomini nei modi più efferati (il sample di Coat of Human Skin è di un poveretto sbranato dai topi, tanto per fare un esempio). Ciò premesso, il disco è interessante ma non imperdibile: violentissimo ai limiti del grindcore, la compressione delle chitarre a volte rende i riff farraginosi, con suoni di batteria dilettanteschi; inoltre il rullante effetto mitraglietta automatica copre tutto il resto, nonostante l’impressione che chi si occupa dello strumento sia disumano. Infine il cantante (un session con le corde vocali in decomposizione totale) fatica a discostarsi dal grugnito incomprensibile puro e semplice. Il disco è molto breve, propone alla fine una versione incattivita di World Eater oltre a quattro pezzi originali, e doveva essere l’apripista per un full teoricamente imminente ma che poi sarebbe arrivato solo quattro anni dopo, sempre sotto la Sevared. Non particolarmente prolifici, sono ancora attivi ma in tutta la loro lunga carriera hanno fatto uscire solo sei titoli. Non sono comunque mai stati all’altezza delle aspettative, e i loro dischi sono tutti poco più che di medio livello.
ANGANTYR – Sejr
Michele Romani: Gli Angantyr da Copenaghen sono una tra le migliori realtà di puro black metal nordico uscite a cavallo del nuovo millennio, una band che praticamente non ha sbagliato nulla nella propria carriera ma che, per qualche oscura ragione, è stata sempre relegata ad un ambito prettamente underground. In realtà parlare di band non sarebbe neanche corretto, perché negli Angantyr ha fatto sempre tutto Jakob “Ynlegorbaz” Zagrobelny, unico compositore di musiche e testi e personaggio tra l’altro attivo con una miriade di altri progetti (tra tutti consiglio caldamente i Make a Change… Kill Yourself). Sejr è la seconda fatica dei danesi e mostra già un leggero cambiamento rispetto al raw black metal del precedente e bellissimo Kampen Fortaesser, cominciando ad attingere ad elementi tipi del pagan-viking metal che prenderanno il sopravvento nei dischi successivi. Per il resto che dire, i riff sono uno più ispirato dell’altro, caratterizzati da quel misto di epicità e malinconia tipica del black norvegese primi anni ’90, che prendono forma in brani quasi struggenti nella loro bellezza quali Niddingdad o la clamorosa Hadets Sorte Flamme. E non sto parlando neanche del miglior disco degli Angantyr, che con il duo Haevn/Svig raggiungeranno l’apice della loro carriera. Se non li conoscete vi consiglio di porre immediatamente rimedio.
THROES OF DAWN – Quicksilver Clouds
Griffar: E diciamo che non so spiegarmi neanche il quarto disco dei pur essi finlandesi Throes of Dawn, autori in precedenza di due dischi stupendi (Pakkasherra e Dreams of the Black Earth, eccellente black melodico/ atmosferico). Il terzo album era, visto a posteriori, transitorio, ma non si avvicina neanche per sbaglio a questo mischione post-black/gothic/elettro-prog e quant’altro. A tratti sembra di ascoltare i Real Life (quelli di Send me an Angel, presente?) un po’ induriti, altrove siamo addirittura vicini ai Depeche Mode che si mettono a fare cover dei Katatonia (o viceversa, importa poco). Sarà pur vero che i brani sono molto melodici e accattivanti, e hanno un’attitudine pop in grado di fare classifica anche oggi… Voglio dire: se una tizia qualunque viene votata ottava miglior chitarrista degli ultimi vent’anni vuol dire che in campo pop ci sono interi latifondi da colonizzare, e ci potrebbero riuscire anche questi Throes of Dawn; ma ascoltarsi tutti in fila i nove brani per quasi eterni 48 minuti di Quicksilver Clouds è una colossale rottura di palle anche se siete amanti di ambientazioni sonore soffici, cotonose, morbide, sognanti e del tutto prive persino della più edulcorata veemenza, che per amor di onestà in un disco metal non dovrebbe mai mancare. Azzardo dire che Slippery When Wet di Bon Jovi è più aggressivo di Quicksilver Clouds, e i Throes of Dawn sono quelli che hanno scritto The Blackened Rainbow. Ma dico, scherziamo?
METAL CHURCH – The Weight of the World
Marco Belardi: Ricordo ancora il giorno in cui ricevetti il promo di The Weight of the World. Non avevo il coraggio di farlo partire, nonostante la copertina fosse tutt’altro che imbarazzante. Alcuni di voi terranno ben a mente quella di Masterpeace, che comprai il giorno dell’uscita giusto qualche anno prima. Ecco, lì c’era David Wayne. Il nuovo dei Metal Church presentava tale Ronny Munroe, un quarantenne originario dello stato di Washington. Indagai a lungo su di lui senza capirci niente: in sostanza aveva cantato con cani e porci, e, allo stesso tempo, non aveva lasciato quasi alcuna traccia discografica. E continua a farlo, perché, badate bene, di recente risulta passato per i Vicious Rumors, ma probabilmente l’ha fatto per una grigliata e una partita di calcetto. Ronny Munroe non aveva niente che non andasse: semplicemente mi piaceva meno dell’aggressivo David Wayne e molto meno del completo e più fruttuoso Mike Howe. L’album era pure bello, certamente uno dei migliori dal ritorno in scena dei Metal Church, e faceva perno su una produzione semplicemente meravigliosa. La batteria di Kirk Arrington risuonava in modo stupendo, quasi live e con delle dinamiche di livello assoluto. Fu il suo ultimo album con i Metal Church: lo sostituì Jeff Plate. Dopodiché sappiamo che fine ha fatto, al pari di Wayne e Howe. La title track e il suo semplicissimo ritornello da cantare a squarciagola ancora mi risuonano in testa. Gruppo eterno, al netto di tutto quel che gli è capitato.
IMPIOUS HAVOC – Monuments of Suffering
Griffar: Oscura entità finlandese di seconda fascia, da molti non a torto considerata come un side-project dei Forever Winter – gruppo che per motivi a me del tutto ignoti gode di fama di cult band proto-black metal, l’ho saputo di recente grazie a un tipo che su Discogs mi ha chiesto di vendergli i loro cd – gli Impious Havoc sono stati una band molto prolifica nei primi anni della loro esistenza. Monuments of Suffering è un EP di quattro pezzi e segue a distanza di pochi mesi il secondo album At the Ruins of the Holy Kingdom, uscito anch’esso nel 2004. Ribadisco comunque che il loro black metal grezzo, scarno e fortemente incentrato su schemi compositivi presi di peso dal passato senza curarsi più di tanto del fattore originalità, vale sempre la pena ascoltarselo. È scolastico, è minimale e funziona benissimo così com’è, anche se la diversificazione compositiva non è il loro forte e i pezzi tendono ad assomigliarsi un po’ tutti. Sapevano scrivere riff che funzionano, che fanno scapocciare o ti fanno lanciare nell’air guitar (tipo l’omonima, e dai, è un gran pezzo, che cazzo) e anche se non hanno mai cambiato la storia della musica sono degni di stima ed apprezzamento. Fino al 2007 hanno fatto uscire un sacco di materiale nuovo, sono poi scomparsi per sei anni ritornando nel 2013 con il full Infidels, sempre di scuola Clandestine Blaze/Sargeist/Diaboli. Oramai sono passati undici anni, non so se ne sentiremo ancora parlare. Tutt’al più tengono il gruppo in vita per qualche festival, ma non ho notizie certe che abbiano suonato dal vivo di recente.













Mi ero colpevolmente perso il ventennale di Forsaken Symphony, recuoero subito.
Grandissimo gruppo i Sear Bliss, assurdo quanto poco abbiano raccolto.
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Grazie a questo articolo mi sono andato a riascoltare “I” dei Meshuggah. Cazzo, che bomba.
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