Avere vent’anni: MASSIVE ATTACK – 100th Window

I Massive Attack non sono solo una delle band cardine degli anni ’90 ma anche uno dei gruppi più importanti e trasversali della storia della “musica popolare”, non essendo, ormai da tempo, possibile incasellarli in un genere predefinito. Un gruppo capace di abbracciare sonorità tra loro distanti anni luce e di conquistare ascoltatori che vengono dai più disparati settori: basta andare a un loro concerto e guardarsi intorno per rendersene conto. Un gruppo che non si ripete mai, che cambia pelle a ogni stagione senza perdere di vista la propria anima, e che ha l’immenso pregio di pubblicare un disco solo quando ha davvero qualcosa da dire: e questo è il motivo per cui nella loro discografia si contano solo cinque album in trentacinque anni, escludendo EP, colonne sonore e altri progetti. Non solo: ognuno di questi album è importante, estremamente pensato in tutte le sue componenti e connotato, dietro un’apparente immediatezza, da grande profondità.
Non fa eccezione 100th Window, primo disco pubblicato dalla band dopo il successo planetario di Mezzanine (quattro milioni di copie vendute), senz’altro il lavoro più difficile dei Massive Attack, che vede il leader e compositore indiscusso della band, Robert “3D” Del Naja, ripartire da zero.
Scompare praticamente tutta la band. Scompaiono le tentazioni più pop. Scompaiono le influenze più smaccatamente hip-hop. Scompaiono campionamenti e sample. Tutto è ridotto all’osso e costruito attorno a ritmiche scheletriche su cui si ergono sinistre orchestrazioni sintetiche.
Un album oscuro, cupo, ossessivo, volutamente ripetitivo in quanto incentrato sugli stessi loop e su strutture circolari, come si intuisce sin dall’iniziale Future Proof. All’epoca venne accolto in modo tiepido tanto dal pubblico (che probabilmente si aspettava un clone del precedente album) quanto dalla critica; quest’ultima troppo impegnata per approfondire i nove brani che compongono l’album e per addentrarsi tra le pieghe di 100th Window, il quale, come il successivo Heligoland, non può essere ascoltato superficialmente per essere compreso e non può essere liquidato con quattro battute da chi si sente primo della classe senza neanche averne le basi. Perché, anche dopo vent’anni e una miriade di ascolti, è sempre possibile ritrovare qualcosa di nuovo nelle minimali ritmiche poste alla base di 100th Window.
Nove brani (più una traccia fantasma) che vanno a formare un’unica sinfonia incompiuta in cui ogni tassello è perfettamente inserito al suo posto. Dopo il già menzionato incipit troviamo infatti la splendida What Your Soul Sing e il primo ospite, ossia una straordinaria Sinéad O’Connor (una delle più grandi voci di tutti i tempi), che impreziosirà anche il singolo Special Cases – il brano più immediato dell’album – e A Prayer for England, forse il migliore del lotto, con il suo incedere opprimente e la sua evocativa linea melodica.
A differenza del passato, però, sia quando l’ospite è Sinéad O’Connor sia quando è il fidato Horace Andy (sulla notevole Everywhen) è facile intuire come le loro voci (così come quella di 3D) svolgano una funzione diversa, di meri strumenti, che diventano un ulteriore tassello del tappeto sonoro: una “parte del tutto” che non deve emergere o stagliarsi sul resto. Perché mai come in 100th Window è il suono ad essere protagonista, ancor più delle singole composizioni o delle loro componenti. E in tal senso è evidente il filo conduttore che lega l’inquietante singolo Butterfly Caught a Name Taken, è del tutto palese che la nervosa ritmica di Everywhen si respira anche nella malsana atmosfera della conclusiva Antistar. Ma 100th Window non può essere “spacchettato” per essere compreso e apprezzato pienamente. Necessita di tanta pazienza per essere decifrato, ma, anche a distanza di anni, come tutti gli altri album dei Massive Attack, è ancora capace di emozionare e sorprendere. (L’Azzeccagarbugli)