Nuraghe thrash metal: BURNING LEATHER – New World Order

Dei Burning Leather ho scritto non molto tempo fa, e il responso fu generalmente positivo. Un paio d’anni di attesa e mi ritrovo ad avere nuovamente a che fare con loro. Doveroso è il riepilogo anche se cercherò d’esser breve: i Burning Leather provengono da Olbia e hanno un logo che richiama nella forma e nell’essenzialità quello dei Megadeth. Anche la voce caustica di Mario Spano accenna a Mustaine, neanche tanto fra le righe. Poi ci sono i Metallica, dappertutto.
Lungi dal voler far sembrare questa descrizione uno “statene alla larga” generalizzato, dico che del precedente e omonimo disco mi ricordo ancora certi passaggi, e ne ho ben impresse due o tre tracce.
La formazione a due anni di distanza è del tutto cambiata: Mario Spano, fulcro totale del progetto, è ora affiancato da un chitarrista, Alessandro Muntoni, il quale sgrava notevolmente il suo compito solista, oltre che da una sezione ritmica rinnovata in toto. Rispettivamente al basso ed alla batteria troviamo Daniele Muntoni e Daniele Murru.
L’album suona anche stavolta come un mastodontico inno allo speed metal tecnico dei Megadeth. Fate partire Blitzkrieg (uno dei due singoli che hanno aperto nelle piattaforme streaming la promozione di New World Order) e capirete all’istante a cosa mi riferisco. Piccola parentesi: l’assolo in chiusura è goduria totale e si stampa in testa con assoluta immediatezza. A salvare l’operazione dalle problematiche che a breve elencherò, oltre alle capacità tecniche e compositive dei ragazzi, è il fatto che dal precedente album sono state importate le idee più personali e funzionali, come quel senso di modernità che dominava un pezzo come Modern World Suicide.
L’album è anche più compatto: sparite le velleità d’inizio anni ’80, si punta in tutto e per tutto su uno speed’n’thrash quadrato, dinamico, con la peculiarità di vantare brani dalla durata mai eccessiva che non superano il valico del quinto minuto. L’opener Nothing But True è forse l’unico punto di contatto evidente coi Metallica e mi ha ricordato la struttura e i riff della recente Spit Out the Bone.
Però ci si deve staccare ulteriormente dai Megadeth. Ascolti Secret Area e, titolo non titolo, alcuni passaggi portano direttamente dalle parti di Hangar 18. Insomma, il citazionismo può essere un punto di partenza, poi però ti devi evolvere e sviluppare un qualcosa di almeno vagamente personale, specie se hai certe capacità. Che poi Secret Area è pure carina, culminante nello sbrocco vocale finale. L’intenzione a quanto pare c’è, e tutta la seconda parte del disco è caratterizzata da un pesante heavy metal, esteticamente molto godibile ma meno incisivo nella resa.
Nel tirare le somme dico che dai Burning Leather mi sarei aspettato altro, forse qualcosina di più. Il secondo disco di una band è spesso complesso, perché si mette a fuoco l’aspetto tecnico e sonoro e la genuinità dei brani può risultarne sacrificata. Credo che questo sia solo in parte accaduto: un po’ mi manca il cazzeggio di una Psychokiller o di Lawbreaker; d’altro canto i Burning Leather sono notevolmente migliorati nel gestire e affinare le canzoni, hanno una line-up che mi auguro acquisti solidità e continuità negli anni, e ora sono chiamati alla prova del nove. E se sono affezionati al thrash metal degli anni Ottanta ben sanno cosa significhi mettersi a un tavolo e buttare giù il disco numero tre. (Marco Belardi)