Quaranta minuti di angoscia e disagio: CHAT PILE – God’s Country

Diffidenza. Quando vedo un disco di area “estrema” incensato su tutti i principali portali/riviste di musica alternativa, la mia prima reazione è di assoluta (anche ottusa) diffidenza. Intendiamoci, sono per fortuna lontani i tempi in cui una certa stampa si interessava forzatamente a certe sonorità e ogni tanto pompava all’inverosimile dischi che, in altre cerchie, avrebbero avuto ben poca risonanza, ma ormai inizio ad avere un’età e dei pregiudizi ben radicati.

Per questo, quando già a partire dal precedente EP avevo iniziato a leggere superlativi assoluti legati ai Chat Pile, band dell’Oklahoma che si presenta con un logo tipicamente black metal e una proposta tendenzialmente sludge, avevo avvertito il sentore di una proverbiale sòla e avevo deciso di ignorarli. Allo stesso modo, quando ho iniziato a leggere giudizi più o meno unanimi sul loro debutto, God’s Country, quasi come se i Chat Pile fossero i salvatori della patria, il fastidio è aumentato ancora di più. E mi sbagliavo alla grande.

god'scountry

Perché, se i Chat Pile non sono i salvatori della patria e in assoluto non si inventano nulla di nuovo, sono anni che non sentivo nel genere un disco così ispirato, compatto e annichilente. E parlando di genere già iniziano le difficoltà. Di primo acchito, la base è chiaramente – e anche tematicamente – uno sludge estremamente pesante che si fonde con un post-hardcore reso ancora più opprimente da ritmiche industrial: un cupo miscuglio di Eyehategod, Today is the Day ed elementi propri dei primi Godflesh e dei Jesus Lizard. Ma una descrizione di questo tipo sarebbe comunque limitante e, per accorgersene, basta ascoltare la devastante Why, con momenti molto Black Flag/Rollins Band, o le atmosfere quasi grunge di brani come Pamela ed Anywhere, o i diversi passaggi ai limiti del death metal presenti in alcune composizioni del disco. Una proposta comunque molto pesante e contraddistinta da un’angoscia e da un senso di disperazione verso il presente da lacerare i nervi dell’ascoltatore.

Tra chitarre marcissime, ritmiche asfissianti e vocals che passano da grida sguaiate a spoken word, da momenti di una violenza inaudita a stasi di feedback e rantoli disperati, è difficile arrivare alla fine di questi quaranta minuti senza un senso di malessere diffuso.

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Sensazione che aumenta ancora di più se si presta attenzione ai testi che spaziano dalla critica sociale, espressa in modo senz’altro naif, ma efficace (vedi la già menzionata Why), alle descrizioni di situazioni di assoluto degrado di Wicked Puppet Dance (His skin is all fucked up but he cooked a nice batch / Everywhere in the walls new roach babies hatch / She says vein stuff freaks her out so I keep quiet / Everyone says they can’t handle vein stuff ‘til they try it), al racconto di una rapina in The Mask (Open the fucking cash register before I kill everyone in here / No, don’t go to him, stay on the ground, I didn’t hit him that hard And anyway I can hit a lot harder if you want to find out / Won’t matter to me none, do you want to see? / Line up the animals!), alla fine di una relazione finita nel peggiore nei modi possibile (Pamela).

Temi e immagini che i Chat Pile riescono ad esprimere in modo estremamente vivido e sentito grazie ad un linguaggio semplice ed estremamente diretto, privo di orpelli retorici e ad un’interpretazione davvero impressionante del cantante Raygun Busch. Quaranta minuti di pura angoscia e disagio – ben rappresentati dall’immagine di copertina del penitenziario di Oklahoma City, noto per essere un vero e proprio mattatoio (probabilmente il riferimento all’iniziale Slaughterhouse) – che non lasciano indifferenti.

Non per tutti, non per tutti i giorni – a meno di non voler finire in un ospedale psichiatrico – ma mai come in questo caso i miei pregiudizi erano del tutto infondati, in quanto God’s Country è senza dubbio una delle uscite di maggiore spessore di questo 2022. (L’Azzeccagarbugli)

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