Un perfetto zibaldone: WILCO – Cruel Country

Everything is listening
For what it means
So talk to me
I don’t want to hear poetry
Just say it plain
Like how you really spеak
Non è mai facile “tornare alle origini” e soprattutto non si rivela quasi mai una scelta logica e felice. Quanti “ritorni” abbiamo visto sgretolarsi sotto il peso delle aspettative, del mestiere e della voglia di accontentare quante più persone possibile? È per questo che al momento dell’annuncio “Wilco goes country” ho avuto un certo timore. Da un lato perché gli ultimi lavori dei nostri, volutamente lo-fi e quasi ostentatamente minori – ma non per questo poco ispirati – avevano irritato gran parte del loro pubblico, dall’altro perché, data l’evoluzione che la band ha avuto nel corso degli anni, tornare ad essere quelli di Being There sarebbe stato davvero insensato. Ed infatti, fortunatamente, non è andata così.
Perché Cruel Country, pur contenendo degli episodi effettivamente più vicini a quelle sonorità, come il singolo Falling Apart (Right Now), non è assolutamente un disco country né un ritorno alle origini, ma si inserisce alla perfezione nel contesto del lungo percorso intrapreso da Tweedy e soci. È sicuramente un disco più raccolto e più intenso – pur essendo un doppio – anche perché è il primo lavoro ad essere registrato dal vivo da Sky Blue Sky; e nelle sue 21 tracce ritroviamo gli Wilco nella loro forma migliore.
Se già il precedente Ode to Joy era il chiaro segnale di una band che voleva tornare a composizioni più curate e ad album che non fossero un mero contenitore di canzoni, Cruel Country è la fotografia di una band in stato di grazia, capace di pubblicare un lavoro ricco, sfaccettato, di non immediata lettura, ma connotato da un’ispirazione talmente elevata da renderlo il loro miglior disco quantomeno dal 2007. Un’opera che a partire dall’iniziale – struggente – ballata I am my Mother richiede grande attenzione. Perché anche i brani più “pop” e apparentemente immediati (come Hints o la byrdsiana Tired of Taking it Out on You) in realtà contengono un vero e proprio universo capace di espandersi ancor di più una volta che si iniziano ad approfondire i testi, tra i migliori mai scritti da Jeff Tweedy, che si conferma uno degli autori più acuti e ispirati della sua generazione.
Volendo ricorrere ad una metafora facile, Cruel Country è un perfetto “zibaldone”. Lo è perché è una summa di quello che sono stati, che sono e che saranno gli Wilco, riuscendo a mettere insieme brani più spogli, quasi interamente per sola chitarra e voce, come The Universe, a composizioni più complesse come Bird Without a Tail/Base of My Skull e Many Words – spezzata da uno splendido assolo di Nels Cline – a ballate tristi e desertiche, come la spettacolare The Empty Condor. Lo è a livello di testi, come al solito frutto della sola penna di Tweedy, che spaziano da aneddoti in un certo senso davvero country come nella toccante Ambulance (Trying not to laugh / They pronounced me dead at half past/ And that priest he pissed his pants / When he heard me start to say hello) a tematiche più universali come nel vero pezzo country del disco, A Lifetime to Find (Oh Death, oh Death, I was just getting dressed /The place is a mess / I was hoping you’d forget / But I can feel you in my chest) a confessioni personali, come nella beatlesiana A Story to Tell.
È uno zibaldone perché ancora una volta Tweedy e soci riescono a raccontare le diverse anime degli Stati Uniti, di quel Paese crudele che richiede solo “di cantare in coro e di uccidersi una volta ogni tanto”, come pochi altri al mondo. E riuscire a farlo con questa ispirazione, dopo trent’anni di carriera e dopo una manciata di lavori meno incisivi, è prerogativa solo dei giganti. (L’Azzeccagarbugli)
Everything can shine
Even the devil sometimes
While I was busy dying
My Lord, she made some other plan