La signoria vostra è gentilmente sfidata a singolar tenzone: VÉHÉMENCE – Ordalies

Teglezio e Perlazio erano ormai ai ferri corti da anni. Non si sopportavano proprio, e il fatto che Perlazio avesse ingravidato la sorella di Teglezio di sicuro non migliorava i rapporti tra i due valvassori di Re Carlo.
Ad aggiungere olio sul fuoco, più recentemente, fu il fatto che il sovrano, nella sua buona disposizione verso i sudditi e servitori più fedeli (credeva infatti nel detto “tieni gli amici vicini e i nemici ancora più vicini”), aveva appena promosso Perlazio a vassallo del Sacro Romano Impero, concedendogli così il famigerato diritto di ius primae noctis sui suoi diretti sottoposti, come di recente stabilito dai fini giuristi della corte del re dei Franchi.
Ad un oltraggio se ne sarebbe quindi presto aggiunto un altro, visto che Teglezio stava da mesi organizzando uno sfarzoso matrimonio con la bella Griselda, la quale era intenta a tutte quelle attività tipiche di quando si predispongono eventi di questa portata: compilare liste di nozze, pianificare tavolate per evitare che lo zio Venanzio, notorio ubriacone da festa di paese con mano assai svelta e birichina, sedesse vicino alle nipotine appena adolescenti durante le libagioni, e così via.
All’idea che oltre alla sorella Perlazio potesse trombargli pure la fidanzata, Teglezio sentiva giustamente il sangue andargli alla testa. Decise quindi d’istinto di sfidare il suo mortale nemico a duello, prima che la promozione di questi al rango superiore diventasse effettiva, annullando di fatto le possibilità dei due di scontrarsi, in quanto un guanto di sfida lanciato da un’inferiore ad un superiore sarebbe stata un’ingiuria che re Carlo non avrebbe esitato a lavare col sangue o con l’esilio perpetuo.
Per caricarsi durante le esercitazioni di scherma, Teglezio decise di allestire un’orchestrina ed un coro che avrebbero eseguito di continuo i maggiori successi allora in voga, dal Codex Bamberg, che furoreggiava in tutte le chiese dell’Impero, a tutti gli altri mottetti che la Schola Cantorum padroneggiava con perizia ineguagliata, raccogliendo consensi in tutta l’Europa continentale grazie ad un’esecuzione magistrale.
Perlazio si approcciò alla sfida all’ultimo sangue in maniera diametralmente opposta. Invece della solennità della musica sacra scelta dal suo acerrimo rivale scelse un genere più scanzonato, che maggiormente si confaceva al suo stato d’animo, ovvero quello di chi nulla aveva fatto, in fondo, per oltraggiare gratuitamente Teglezio: dopotutto quelle donne gli avevano aperto la cintura di castità di loro sponte, e il famigerato “droit du signeur” era un privilegio inalterabile su cui si costituiva un ordinamento che era alla base della forza e potenza del dominio del re oramai divenuto imperatore e recentemente elevato dallo stesso soglio di Pietro a difensore unico della Cristianità.
Perlazio optò quindi per quel “rumore” che tanto andava nelle bettole più famigerate dei bassifondi parigini, frequentati da goliardici studenti universitari, baldracche di infima risma e tagliagole vari. Chiamò così i Véhémence alla sua corte, per allietare le giornate che lo separavano dalla tenzone.
L’ultima raccolta di canti di questo ensemble, intitolata Par le Sang Versé e ormai vecchia di tre anni, rompeva culi a destra e sinistra, e lo ispirò nello studiare nuove strategie di scherma e trovare nuove letali mosse da eseguire con il suo spadone a due mani, forgiato nel fuoco dal sapiente fabbro Filinus.
Il giorno fatidico Teglezio schiumava di rabbia, e si presentò completamente bardato dalla sua armatura da battaglia, parzialmente coperta da una veste rosso fuoco.
Perlazio, che di certo non era l’ultimo coglione, si abbigliò in maniera non dissimile, e arrivò in sella al suo purosangue arabo, razza che ormai da parecchio tempo veniva addestrata in tutto l’Impero e risultante da fruttuosi scambi fatti negli anni addietro con i Maomettani al confine pirenaico, prima che quei senzadio diversamente bianchi si mettessero in testa di minacciare il mondo occidentale, ricevendo in cambio sonori calci nel culo a Poitiers.
Perlazio era talmente sicuro di sé che manco si levò gli speroni, che non considerava d’intralcio alcuno nell’assalto in cui si stava per lanciare. Indossata la sua veste preferita, nera come la pece, si avvicinò al rivale e sferrò a sorpresa un formidabile fendente che fece vacillare Teglezio, il quale, considerandosi parte offesa ed essendo mosso da motivi più che validi, credeva di avere il vantaggio del fuoco della rabbia dalla sua. Nulla di più sbagliato. I contendenti duellarono a lungo, e c’è chi giura di aver visto fiamme e scintille sprigionarsi al contatto dell’acciaio con l’acciaio. Dopodiché Teglezio, stremato e sicuramente inferiore fisicamente, dovette soccombere ad un raffinatissimo affondo di Perlazio, che lo infilzò come un tordo, non curandosi della protezione dell’armatura del rivale, che si bucò come una latta di fagioli preconfezionati all’agire di un apriscatole di buona qualità. Teglezio cadde in ginocchio e Perlazio lo decapitò senza pietà, urlando “ar Cavaliere Nero nun je devi da cagà er cazzo!”.
Leggenda narra che una compilazione fenomenale di mottetti, roba da playlist di quell’A.D., fu composta per l’occasione dai Véhémence, intitolata Ordalie e fu pari, se non meglio, della loro precedente raccolta di lavori. I più fini miniaturisti dell’epoca, su commissione, raffigurarono la scena del mortale duello in quello che divenne poi il frontespizio dell’opera. (Piero Tola)