I maestri della registrazione al tempo della plastica

Pensate per un attimo ai dischi con cui siete cresciuti: giustificavamo il modo in cui essi erano stati prodotti negli anni ottanta, semplicemente perché allora non era per niente facile andare oltre a un certo livello; ma è stata la tecnologia a far sì che nel decennio successivo si affermassero dei veri e propri guru degli studios. Se in origine era stato tutto un gran parlare di Flemming Rasmussen o Rick Rubin per il loro lavoro svolto nel 1986, da lì in poi ogni corrente principale del metal avrebbe avuto il suo punto di riferimento. Come Peter Tagtgren in campo estremo nella seconda metà dei novanta, Scott Burns in ambito prettamente death metal qualche anno prima, oppure l’acclamato Ross Robinson in fatto di modernità. E se quella gente era diventata così brava nel fare il suo mestiere, non entrando nel merito di passi clamorosamente falsi come Spiritual Black Dimension, lo doveva non solo al talento personale ma anche al progresso tecnologico apportato dall’ incedere del digitale in sfavore dell’ analogico, e soprattutto al momento florido che l’industria discografica stava storicamente vivendo.

MTV era un ribollire di videoclip metal, con Julia Valet che andava triplicando la razione giornaliera di seghe di molti nostri compari; ma soprattutto le case discografiche godevano di questa spinta mediatica e – a differenza di oggi, in cui Nuclear Blast sembra un occhio di Sauron pronto a togliere alla smunta concorrenza ogni papabile punta di diamante – ogni sottogenere aveva anche lì i suoi fiori all’occhiello, con al seguito i relativi gruppi di cui andare orgogliosi. Come Relapse, Earache, Season Of Mist, Candlelight o le piccole etichette di culto che incentravano quasi tutto il lavoro sul territorio nazionale, per esempio Deathlike Silence Prod. o la brasiliana Cogumelo Records. Ce n’era per tutti e, a meno che tu non fossi uno stronzo totale, avevi di che lavorare, o perfino di farne una vera e propria multinazionale.

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Le problematiche legate al guardare Superock quando avevi 13 anni

La cosa buffa è che oggigiorno troviamo molti album appartenenti ad etichette minori, se non addirittura autoprodotti, presentarsi meglio all’ascoltatore sotto il punto di vista di registrazione e mixaggio rispetto a ciò che gode di una spinta assai maggiore. Perché?

Uscendo dall’ underground, uno dei pochi a riuscire ad approfittare di questo ammodernamento generale dei suoni – ma senza farne uno scempio – è stato sicuramente Andy Sneap. Non stravedo per l’operato in studio dell’ex compagno di Andy Walkyier nei Sabbat, ma è fuori da ogni dubbio che l’inglese abbia saputo calarsi in ogni parte che nel tempo gli è stata assegnata: dai suoni vivi e spacca-timpani degli Iron Monkey ai Cathedral di Caravan Beyond Redemption, con gli anni duemila il chitarrista si è totalmente tuffato in quella dimensione “plasticona” del sound attuale dell’ heavy metal, senza risultare responsabile dei danni tipici di molti suoi colleghi. Dead Heart In A Dead World e Tempo Of The Damned sono probabilmente due dei migliori biglietti da visita di quel periodo, e probabilmente il suo maggior difetto è stato accettare di lavorare in circostanze proibitive, come con i Cradle Of Filth di Godspeed On The Devil’s Thunder o gli Arch Enemy all’ inizio del loro inarrestabile declino creativo. Eppure Andy Sneap è oggigiorno parte di quella non più ristretta fetta di produttori che fanno venire la bava alla bocca alle grosse label nate in Europa – come Century Media o Nuclear Blast – che a fronte di minori incassi dalla vendita dei dischi e una spinta mediatica divenuta impalpabile – social a parte – devono tagliare da qualche parte per rientrare più o meno tranquillamente nei costi. Qualche decennio fa era normale sentir dire che la produzione di un album fosse costata troppo: i Fletwood Mac avevano impiegato per realizzare Tusk tempi degni dell’ invecchiamento di un Single Malt scozzese, e in tempi recenti si è chiacchierato tanto dei milioni occorsi per partorire Untouchables dei Korn, o quella roba dei Guns ‘n’ Roses che ad oggi mi sto rifiutando di sentire per intero. E poi?

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Fammi una faccia da Andy Sneap!

Poi il vuoto, negli ultimi dieci anni ci siamo ritrovati davanti a un’industria discografica un po’ abbandonata a se stessa anche per colpa sua, per quanto in teoria sia relativamente facile – con la tecnologia degli anni ’10 – entrare in uno studio ed uscirne con in mano un prodotto quantomeno dignitoso.

Prendendo come esempio pratico i batteristi, avete presente quegli album in cui hai la reale percezione dello strumento suonato pur rimanendo in un contesto strettamente metal? A chiunque andrà bene se un disco dei Fear Factory o dei Meshuggah suona freddo, perché ciò rientra nei loro canoni di espressione; ma senza entrare in contesti principalmente “tecnici”, in cui  si cerca di valorizzare lo strumento ed il tocco di chi lo adopera, già nei primissimi novanta gli Slayer – vantando uno dei migliori interpreti dell’ intera scena – continuavano a evidenziare la figura del batterista dopo che, in South Of Heaven, avevamo assistito alla definitiva esplosione di Lombardo. E senza rinunciare a qualche eccessivo effetto sul rullante, tipico dei tempi che furono, la batteria suonava proprio come è nelle caratteristiche di quello strumento.

Ciò è assolutamente possibile anche al giorno d’oggi, basta sentire Brann Dailor dei Mastodon per rendersene conto, o addirittura i Meshuggah stessi, i quali hanno voluto togliersi lo sfizio di far suonare “più vivo” Tomas Haake nel loro ultimo – e ottimo – The Violent Sleep Of Reason. E con che risultati! Il guaio è che, presumo per stare il minor tempo possibile in studio – che è come avere un tassametro che incombe sopra alla propria testa – molti batteristi odierni hanno finito per suonare tutti quanti nella stessa maniera, negli atroci tempi in cui si è chiacchierato a oltranza di trigger e normalizzazione. E lo stesso discorso si può fare per gli altri strumenti: un mostro dei 90’s nonché uno dei miei produttori preferiti, Terry Date, negli stessi anni in cui lavorava con i Soundgarden realizzò con i Dark Angel uno dei suoni più potenti che avessi mai sentito, quello di Time Does Not Heal. Non era perfetto ma andava benissimo così, ovvero un filino sporco ma sostanzialmente una bomba, e vagamente sulla scia di ciò che Scott Burns andava elaborando dall’ altra parte degli Stati Uniti all’insegna del down-tuning, pur lavorando con i Sepultura, così come con nomi di minor richiamo come quello degli Psychotic Waltz. La musica ha goduto di queste produzioni epocali per tutti i novanta o quasi, ma diciamo che intorno al 1997 sono comparsi i primi fallimenti – o capostipiti di un controverso cambiamento – sintomi di un abuso della tecnologia in servizio del risparmio e dei suoni “pompati” senza un preciso criterio. Non vuoi perdere tempo a registrare le tracce di batteria fino a ottenere beat omogenei in volumi e intensità, anche se di fatto non lo fai in one-take ma è un copia e incolla? Ci penso io, non ti preoccupare, anche se poi saranno fondamentalmente cazzi tuoi lo stesso.

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Tom Araya e Terry Date al lavoro sull’album più brutto degli Slayer

Ma ad un costo, ossia il fatto che gli album hanno spesso perso quell’energia vitale che avevano avuto sino a poc’anzi, e questo è inspiegabilmente accaduto soprattutto nelle etichette di punta. Dove veniva probabilmente a mancare quella libertà decisionale che dovrebbe mettere d’accordo tutti, in una band, quando si tratta di non decidere – in preda al libero arbitrio – di ricercare il peggior sound possibile e immaginabile.

Come ho accennato prima, oggigiorno è più facile che mi piaccia il suono di un misconosciuto gruppo al debutto, piuttosto che quello di una navigata formazione che in passato aveva partorito prodotti ben elaborati, come Coma Of Souls in occasione dei Kreator. Provate a sentirvi i loro ultimi album: dopo Violent Revolution, ad opera dello stesso Sneap, il loro declino non è stato solamente creativo e nell’ auto-associazione a quel metal-for-dummies che è piuttosto in voga oggi, ma anche di carattere strettamente sonoro. I loro ultimi due lavori, prodotti da Jens Bogren (ottimo in altre occasioni, come con i Katatonia), suonano letteralmente di merda. Per cui il problema non è il mestierante, ma ciò che gli si commissiona o le scorciatoie a cui si ritrova costretto. E’ importante sottolineare come ci siano delle casistiche del tutto slegate a questo fenomeno: quando Toby Wright nel 1994 si ritrovò a fare le cose alla rinfusa su Divine Intervention, ne risultò un disco in cui nella stessa canzone (Killing Fields) si avevano volumi settati diversamente a distanza di poche battute, e completamente a sé stanti da quelli che troveremo nella feroce traccia successiva, Sex.Murder.Art: ma la potenza che era stata ottenuta sui bassi era indescrivibile, e gli strumenti non erano affatto stati snaturati, poichè si trattava di una circostanza del tutto differente. Un po’ come quell’Enemies Of Reality che, dopo essere stato atrocemente plasmato da Kelly Gray, fece chiamare ai Nevermore il solito Sneap per rimetterci mano.

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Colin Richardson

La mia domanda è: in che percentuale si spartiscono le colpe la casa discografica, nel pretendere che siano rispettati degli standard sonori ritenuti “attuali” e di richiamo verso il pubblico, e il voler risparmiare con indecenza sui tempi di realizzazione, quasi trascurando l’importanza del risultato finale? E quali sono infine le eccezioni? Se un gruppo come i Trivium o gli Avenged Sevenfold decide di suonare così asettico è semplicemente la forma ad esso predestinata, e non mi lamento affatto. I secondi sono riusciti perfino a spegnere la batteria di Mike Portnoy in Nightmare, e se pensate a come suonava in Six Degrees Of Inner Turbulence (un altro contesto, lo stesso talentuoso musicista), viene da strapparsi i capelli. Ma è la loro dimensione e mi sta bene, perché ormai certa gente sono anche probabilmente abituato a sentirla suonare così, e mi sorprenderebbe se uscisse da certi schemi dopo esserci nata dentro. Il problema non è il gruppo classico che si ostina a suonare moderno, ma quello che ottiene una bruttissima produzione nonostante abbia ogni mezzo per fare il contrario.

Speriamo dunque in una retromarcia generale, dato che la tecnologia odierna dovrebbe essere in primis il modo per risparmiare sui tempi continuando a fare le cose per bene. Ne è prova Catharsis dei Machine Head: controverso e sicuramente inferiore a ciò che la band registrava un decennio fa… ma che suoni della madonna sono usciti al gruppo di Rob Flynn, da sempre abituato a lavorare con icone del mestiere come Colin Richardson. (Marco Belardi)

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