WARBRINGER – Woe to the Vanquished

I vecchi nostalgici incarogniti del primo death svedese o, che so, di doom possono contare, per sollazzarsi, su almeno due generazioni di gruppi cloni filologicamente perfetti, alcuni dei quali pure notevoli. Il metallo battente alla vecchia, per qualche complessa e insondabile ragione, non è più stato riprodotto in maniera fedele dopo il grande riflusso degli anni ’90. Nel decennio successivo, lasciando da parte la frangia più violenta e reazionaria (e quindi migliore), quella dei vari Vindicator e Toxic Holocaust, si imposero come maggioritarie due scuole di pensiero, che ancora resistono. La prima è costituita dal revival giocherellone alla Municipal Waste, che non ho mai sofferto. La seconda deriva da quel flagello dei Machine Head, che negli Usa sono pure considerati un gruppo serissimo, per ribadire quale abisso culturale e spirituale ci distanzi dagli americani. I Machine Head avrebbero dovuto continuare a fare nu metal con le tute in acetato, magari a quest’ora sarebbero diventati qualcosa di quantomeno abbastanza decente da poter fare da supporto ai Disturbed. Invece hanno iniziato a fare i grandi affreschi epici di staminchia e, quel che è peggio, un sacco di gente è venuta loro dietro. In mancanza di alternative (gli Havok mi fanno l’effetto del Tavor), provo a farmi piacere i Warbringer. Che, quantomeno, si ricordano che un disco thrash deve durare più o meno quaranta minuti, non settantasei.

Voe to the Vanquished (prima copertina heavy metal, che ricordi, con l’Altare della Patria in copertina) è il quarto album dei californiani e, finora, quello che preferisco. Evita le contaminazioni a capocchia e va dritto al punto. Sulla carta è tutto giusto: i riff taglienti alla Exodus, le ripartenze, gli assoli, gli stacchi acustici. Il disco però non riesce mai a picchiare davvero. Sarà la produzione, saranno gli arrangiamenti, ma la botta vera manca. Sono curioso di sentirli dal vivo, lì, con suoni più grezzi, pezzi che in studio sono ceffoni ben assestati ma non davvero dolorosi, come Remain violent e Descending blade, potrebbero fare male sul serio, chissà. C’è quindi sempre qualcosa che manca; i tic più noiosi del metallo americano degli anni duemila non sono del tutto spariti, per quanto minimizzati, rispetto tanto al loro passato quanto alla concorrenza. Purtroppo, però, è un periodo che dalle vecchie glorie arrivano soprattutto delusioni, quindi tocca accontentarsi dei Warbringer. (Ciccio Russo)

5 commenti

  • Piccola correzione, t’è scappato un Voe al posto di Woe nel testo dell’articolo.

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  • Ognuno ha i suoi gusti, certo che a definire flagello i Machine Head che hanno sfornato 3 capolavori di fila, bisogna proprio avere le orecchie foderate di cazzi :-)…capisco dire “non mi piace perchè ho gusti di merda”, ma buttarli cosi dalla finestra no…

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  • Stavolta non sono tanto d’accordo Ciccio. Per me questo è proprio un cazzo di discone! È il primo che mi piace proprio tanto dei Warbringer, in questo mi trovo sulla tua stessa lunghezza d’onda. Però stavolta trattano la materia con grande cognizione, e mescolano due direttrici del thrash in senso opposto. Sul versante americano recuperano influenze più speed (antiche, direi), tipo Agent Steele (sì, certo, anche primi Exodus); su quello europeo si sente invece che hanno assimilato The Haunted, sprazzi degli At the Gates più pestoni e qualcosa che definisco “blackened” nelle atmosfere. Ti rimane in testa sto disco, non inventa nulla ma minchia, c’ha un gran tiro! Poi, oh, When the guns dell silent è un capolavoro.

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  • Io non li conoscevo, e sto a cazzo dritto da due giorni.

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