BURZUM – Umskiptar (Byelobog Productions)

I precedenti Belus e Fallen li ho sentiti a distanza di svariati mesi dall’uscita. Inizialmente non volevo proprio ascoltarli per principio, come ho fatto con Chinese Democracy, che per me rimane il titolo di un disco degli Offspring. Insomma poi quei dischi hanno preso bene un po’ a tutti e quindi mi sono deciso. Se dovessi iniziare a parlarne non la finirei più, quindi un giorno farò un bell’articolo di viaggi mentali miei sul nuovo corso di Burzum; chi arriverà fino in fondo vincerà, non so, un cono gelato.

Il preambolo è necessario perché per questo Umskiptar non ho intenzione di fare discorsi sui massimi sistemi a proposito della rinascita di Burzum, della continuità concettuale e musicale con la produzione precedente e altre cose su cui di solito passo giorni della mia vita a pensare. Umskiptar è diverso da Fallen e Belus tanto quanto questi ultimi due erano diversi tra loro. In comune con essi ha però una caratteristica fondamentale, diretta conseguenza di una frenetica prolificità che fa seguito a un periodo di inattività lungo più o meno quindici anni: ci restituisce un Vikernes catapultato fuori da un’altra dimensione, ignaro o dimentico non solo di qualsiasi furberia accademica, ma anche di molte fondamentali regole non scritte del fare musica, e lontanissimo da ogni possibile punto di riferimento stilistico. Varg è stato in prigione per quasi vent’anni senza ascoltare musica, o comunque senza avere la minima idea di cosa gli stesse succedendo intorno. Quindi lui è cresciuto anagraficamente e il suo approccio è maturato di conseguenza, ma senza l’aiuto di tutti quei normali passaggi che di solito accompagnano una crescita musicale; né questa maturazione ha seguito i binari dettati dall’evoluzione della scena, secondo la quale se uno vuole inserire elementi progressivi (o epici, o bucolici, o fiabeschi) lo fa in un certo modo piuttosto che un altro. A tal punto che ci sono un paio di generazioni di gruppi burzumiani che hanno seguito una propria linea evolutiva e che si assomigliano molto l’un l’altro, ma non c’entrano assolutamente nulla col Burzum di adesso. 

Mi ricorda un racconto di Ray Bradbury in cui Shakespeare, viaggiando nel tempo fino ai giorni nostri, si presenta ad un esame universitario incentrato proprio sulle sue opere ma viene bocciato. E invece ecco come dovrebbe suonare il Burzum del 2012, ecco quali sono le logiche conclusioni di un discorso iniziato vent’anni fa, senza nessuna paura di lesa maestà o di deviazione dall’ortodossia.

Cercare di descrivere Umskiptar da un punto di vista stilistico è dunque particolarmente arduo perché non saprei dove cercare punti di riferimento. Penso che la descrizione migliore rimanga quella usata da Michele Romani nella recensione di Belus: e cioè che, per quanto possa essere diverso da Hvis Lyset Tar Oss, per qualche motivo è immediatamente riconoscibile come un disco del Conte. Sarà una questione di atmosfere, di corde toccate, di approccio, di sensibilità, non so. Il giudizio sul disco è mai come in questo caso soggettivo e passa per infiniti fattori estremamente personali, tipo il legame empatico col personaggio e col suo immaginario. Chi venera la produzione precedente probabilmente adorerà anche Umskiptar, perché non è altro che una delle tante sfaccettature dell’insieme. Chi considera Varg Vikernes poco più che un pagliaccio che parla troppo e si crede stocazzo, non sopporterà neanche questo disco. Io ho amato Burzum sin dalla primissima volta che l’ho ascoltato e ho anche sviluppato una lettura finalistica della storia della musica secondo la quale, sin dal momento in cui la prima scimmia ha battuto con un bastone contro un tronco, lo scopo di tutto è sempre stato Filosofem.
Il mondo è bello perché è vario. Poi magari approfondiamo il concetto quando esce il prossimo disco, programmato per la fine dell’anno. (barg)

16 commenti

Lascia un commento