ROTTING CHRIST – Κατά Τον Δαίμονα Εαυτού (Season of Mist)

rotting christQuando si deve parlare di un nuovo disco  di una band storica, è sempre buona norma fare un ripasso della discografia precedente, anche per tentare di inquadrarlo in una prospettiva storica. Per quanto mi riguarda tale operazione preliminare decade immediatamente quando si tratta dei Rotting Christ. La mia incondizionata dedizione nei loro confronti è talmente cieca che la sola presenza del nome Rotting Christ in copertina farà sì che quel disco finirà senza alcun dubbio sul podio di ogni personalissima ed ipotetica top ten di fine anno. E sono uno che riesce anche a riascoltare Sleep of the Angels e trovargli giustificazioni artistiche.

Κατά Τον Δαίμονα Εαυτού (Κàta Τon Dàimona Εautù) non richiede nessuna particolare giustificazione, perché è un discone della madonna a prescindere da come la pensiate su tutta la parabola sinusoidale intrapresa da Sakis e Themis, dagli inizi black all’intermezzo gothic fino a questo indefinibile crogiolo di black, epic e folk metal mediterraneo che, in realtà, hanno iniziato a costruire vent’anni fa, quando mezzo mondo giocava a rincorrere la Norvegia mentre loro se ne stavano sotto al sole dell’Ellade a definire i loro personali confini stilistici.

Per anni è stato principalmente questo il grande merito dei Rotting Christ: aver importato un genere musicale, nato a cinquemila chilometri di distanza nelle stanzette di scoglionati adolescenti scandinavi che cercavano un modo per ammazzare il tempo (e non solo), e averlo rivoltato come un calzino fino a farlo diventare un qualcosa che avesse senso anche in un luogo culturalmente, geograficamente e climaticamente agli antipodi. Magari, senza di loro, oggi non staremmo nemmeno qui a citare Addisiu tra i dischi fondamentali della nostra esistenza.

Una volta compiuta la loro opera pioneristica i nostri si sono dedicati a fare un po’ quello che gli pareva, e non a caso il titolo del nuovo disco sta, più o meno, per fedele ai propri demoni, come dire che qualsiasi cambio stilistico sta nella forma ma non nella sostanza. Ed in effetti l’album attinge a piene mani dalle strutture del precedente Aealo, con il solito lavoro sulle linee vocali, il campionario di tradizioni folkloriche che oltrepassa l’area mediterranea per arrivare fino ai culti centroamericani (rievocati nelle iniziali In Yumen – XibalbaP’unchaw kachun – Tuta kachun, dedicate alla cosmogonia maya e inca), fino all’autocitazione del pezzo in latino, Grandis Spiritus Diavolos

rotting christ 2013

Idealmente, il disco vive di tre momenti abbastanza distinti. Uno decisamente spostato verso un black/death sufficientemente pesante da farci capire che, anche passati i quarant’anni, l’ipotesi di risparmiarsi in sede live è tutt’altro che vicina per i fratelli Tolis. Il secondo contiene tutti quegli elementi evocativi e genuinamente epici che andrebbero raccolti in un video tutorial, inviati direttamente ai Dimmu Borgir e proiettati ogni qual volta a Shagrath venga in mente di telefonare ad un’orchestra filarmonica nella convizione che sia quello l’unico modo per costruire un pezzo magniloquente ed evocativo. Infine, il terzo ed ultimo è rappresentato da quell’ibrido folk metal che aleggia senza mai esagerare, una sorta di versione facilitata degli Orphaned Land, da seguire agevolmente anche senza avere l’atlante comparato delle civiltà mediorientali sotto mano. Insomma, mi sembra del tutto pleonastico stare qui a cercare motivazioni tecniche e razionali che dovrebbero spingervi a dare un’ascoltata all’album, per cui chiuderò la recensione con un aneddoto adorante perché, in questi momenti di incertezza post-elettorale, tutti noi abbiamo bisogno del nostro messia di fiducia.

Nell’autunno del 2004 ebbi modo di intervistare Sakis dopo l’uscita di Sanctus Diavolos – a memoria non ricordo cosa sia uscito nel 2004 ma sono abbastanza certo di averlo eletto mio disco dell’anno –  e dopo la famosa estate del trionfo greco, tra Olimpiadi e vittoria nel campionato europeo di calcio. Mi spiegò che sì, era una gran cosa aver fatto fuori Francia, Portogallo e Repubblica Ceca giocando in dieci davanti al portiere ed aver preso medaglie olimpiche in sport mai sentiti prima, ma  tutta l’ubriacatura di successi stava facendo passare in secondo piano il fatto che da quel momento la Grecia si sarebbe ritrovata con una serie di cantieri aperti e mai terminati (strano, mi ricorda un altro paese di quella stessa zona geografica) e, soprattutto, con una ventina d’anni di sanguinari sacrifici economici per coprire le spese che nessuno sembrava aver messo in preventivo. In un paese in cui i musicisti black metal spaccano le bancarelle dei kebabbari e si candidano con Alba Dorata, non capisco come all’unico vero leader carismatico e dotato di una visione politica a lungo termine non venga chiesto di scendere in campo. (Matteo Ferri)

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