Avere vent’anni: dicembre 2005

KORN – See You on the Other Side

Barg: La parabola dei Korn è abbastanza triste. Il debutto fu una bomba, un manifesto visionario di follia violenta suonato (e cantato) da gente che evidentemente non ci stava bene con la testa. Il secondo disco uscì ancora più squilibrato del primo, anche se senza la sua carica eversiva. Il terzo era più lineare, più normale, con canzoni da heavy rotation che permise loro di sfondare nel mainstream. Dopo questo trittico perfetto ci furono altri tre dischi di assestamento, diciamo così, ma poi con questo settimo album See You on the Other Side il tracollo fu evidente, completo e impietoso. Un disco che non ha senso per un gruppo che aveva smesso di avere senso e che aveva pure perso qualsiasi creatività. Il concetto stesso dei Korn poggiava su uno stato mentale patologicamente instabile, e arrivati al 2005 loro erano da così tanto tempo delle ricchissime rockstar con villone d’ordinanza da essersi pure scordati cosa si provasse a stare veramente male. Purtroppo per loro, il mestiere non poteva salvarli. Tutto ciò che era stato non si sarebbe più ripetuto, e quello che sarebbe venuto successivamente non valeva neanche dieci secondi di ascolto. Sfido chiunque a sentire l’album in questione da cima a fondo senza farsi venire voglia di picchiare la testa contro uno spigolo vivo.

SAPTHURAN – To the Edge of the Land

Griffar: Adoro i Sapthuran, della scena statunitense sono tra i miei preferiti e sempre lo saranno, forse anche perché trovarne i dischi non è mai stato semplice e, quando riesci a mettere le mani su un pezzo difficile da trovare, che magari hai atteso per mesi fino al limite della perdita della speranza di vederlo arrivare… Beh, ha un altro gusto. Il progetto fa capo al solo Patrick Hall, da Fort Thomas in Kentucky, e, se solo ci si ferma all’ascolto superficiale dei suoi dischi, non propone musica innovativa o rivoluzionaria, sperimentale, stravagante eccetera. No, questo è raw black metal registrato con un 4 piste in una cantina ammuffita, tutto monocorda, riff semplici, DarkThrone, Immortal, Judas Iscariot, cazzimma, convinzione, orgoglio, passione e fede nella Nera Fiamma. Non c’è altro nei brani di To the Edge of Land (e se vi sembra poco…), sei dei quali su undici totali (tutti privi di titolo, sono numerati in cifre romane) sono brevi interludi nei quali è una malinconica chitarra acustica che prevale; chitarra acustica che anche nei pezzi più elettrici resta presente, mantenendo un filo logico permanente, a tal punto che To the Edge of Land sembra un unico pezzo di 40 minuti suddiviso in undici movimenti. Forse è proprio questa la corretta lettura dell’opera. Non cercate sonorità cristalline e tecnicismi funambolici, ma se siete nostalgici di questo tipo di black metal oggigiorno abbastanza desueto i Sapthuran fanno al caso vostro. Tra il 2005 e il 2010 prolifico autore di tre full, due EP e tre split, dopo una pausa di 5 anni è uscito Hildegicel, e poi il silenzio. Con mio cospicuo rammarico.

INFERNAL POETRY – Beholding the Unpure

Luca Venturini: Beholding the Unpure è il secondo disco della band “unconventional metal” di Ancona Infernal Poetry. Prima di parlare di questo disco andiamo per un attimo a quello successivo, ovvero Nervous System Failure, così da spiegare perché li ho definiti così. L’intro di quel disco è una dichiarazione chiara di che cosa si troverà al suo interno, e dice così: “Warning. This is not a conventional metal album. If you want to listen to a conventional metal album please insert a conventional metal album into the player and press play. Otherwise, just wait a few seconds and relax, if you can”. L’essenza degli Infernal Poetry è tutta qui. In Beholding The Unpure troverete di tutto: death, black, thrash, heavy, industrial, fusion. Rispetto all’esordio Not Light but Rather Visible Darkness, che era un buonissimo album di prog death con uno stile già molto maturo, qui la loro musica si sviluppa ulteriormente in tante direzioni diverse ma tutte accumunate da una logica di fondo che lo rende coeso e coerente. Il bello degli Infernal Poetry è proprio questo: avere mille idee, per lo più complesse, sapere sempre dove farle andare, e infine come convogliarle. Una band per la quale i superlativi potrebbero non bastare mai, e che vi consiglio caldamente di ascoltare se il loro nome vi suona nuovo. Tra l’altro, a maggior ragione, perché questo secondo me è il più bello che hanno fatto, e può essere definito, senza timore di smentita, CAPOLAVORO.

ARKONA / BESATT / THIRST – split

Griffar: Nel 2005 esce uno split di tre band storiche polacche che, probabilmente essendo amiche da sempre, optano per una collaborazione che se non altro ha lo scopo di tenere viva l’attenzione sui tre nomi. Besatt e Thirst sono attivi dal 1991, i sublimi Arkona dal 1993, possono già considerarsi veterani della scena black metal non solo in patria, quantomeno in Europa ed anche nel resto del mondo. In quell’anno nessuno dei gruppi aveva pianificato un full length, cosa strana per quanto riguarda i Besatt – tra i tre decisamente i più prolifici, confrontando oggi le loro carriere – meno per gli Arkona, affatto per i Thirst che ad oggi contano 7 titoli appena e che dall’ultimo album Blacklight del 2008 hanno fatto perdere le loro tracce. Il CD onestamente è un oggetto per completisti: gli Arkona propongono un inedito, una cover dei Besatt e un loro pezzo vecchio riregistrato, tutto nel loro stile inconfondibile e frenetico; i Besatt optano per ripubblicare gli stessi pezzi inclusi due anni prima nello split uscito solo in vinile Conquering the World with True Black Metal War con Inner Helvete, Armaggedon e Misanthropy, quindi black metal ortodosso scarno e minimale (anche se Ave Master Lucifer è un classicone spaccaculi); i Thirst proseguono nel loro black primordiale devoto ai Bathory (dei quali propongono la cover di Raise the Dead) e al thrash metal teutonico di pochi anni precedente, anche insospettabilmente melodico. Se non conoscete i lavori delle tre band questo è un buon punto di partenza, altrimenti è un pezzo da collezione abbastanza ambito, anche perché molte copie uscirono difettose dalla fabbrica e trovarne una che non “salti” non è semplicissimo.

COLDWORLD – The Stars Are Dead Now

Michele Romani: Col freddo di questi giorni credetemi che non c’è niente di meglio che ascoltare in sottofondo un buon disco dei ColdWorld, one man band tedesca dedita ad un depressive black metal d’alta classe, sicuramente tra le cose migliori che la Germania abbai mai prodotto in questo ambito. Il modo di suonare di George Börner (colui che si cela dietro al progetto e che dall’aspetto sembra tutto tranne che un musicista metal) si differenzia in parte dal tipico DSBM degli illustri connazionali per via di una componente ambient molto più accentuata, che prenderà ancora più il sopravvento nel capolavoro Melancholie2 rispetto a questo Ep d’esordio The Stars Are Dead Now. I pezzi sono una stilettata dietro l’altra in cui si erge tutta la classe Börner nel dar vita ad un black metal dannatamente opprimente ma allo stesso tempo intriso di pregevolissime parti ambient-atmosferiche. Segnalo in particolare This Empty Life e quella gemma meravigliosa di Suicide, che verrà riproposta anche nel full d’esordio: il riff al minuto 1:42 è roba da farti accapponare la pelle. Per tutti gli amanti del black più cupo e depressivo i Coldworld sono una garanzia assoluta e non potete non avere almeno un disco loro nei vostri scaffali.

EWIGES REICH – Krieg, Hass, Tod

Griffar: Tanto per ribadire quanto siano vuote le zucche dei benpensanti novelli Catone-il-Censore che oggigiorno pretendono di stabilire chi possa leggere, scrivere o ascoltare cosa, su Discogs è vietata la vendita del CD di Krieg, Hass, Tod, quarto album (di 6 totali, più due split) dei tedeschi Ewiges Reich, ma non le versioni in vinile. Fulgido esempio di strabiliante coerenza. Inconsapevoli di raggiungere l’effetto opposto (sul mercato vale di più il CD dei vinili, cosa odiernamente assai anomala), i benpensanti di cui sopra attirano nel concreto notorietà su un disco che non ha molto da offrire, se non un furioso assalto frontale che occasionalmente si mitiga in successioni di accordi pieni suonati mid-tempo oppure in parti arpeggiate che vorrebbero essere atmosferiche o preparatorie alla bordata successiva ma in pratica spesso non si capisce cosa ci stiano a fare. Non è che il disco sia particolarmente scarso o peggio, soltanto che alla fine dell’ascolto di Krieg, Hass, Tod rimane poco in mente. Nella produzione c’è tantissimo basso, non una consuetudine se ci riferiamo a dischi black metal duro e puro usciti vent’anni fa, nel complesso è piuttosto low-fi, cosa che fa sembrare i brani più rudi di quanto in effetti siano. La band si è sciolta nel 2015, senza mai aver lasciato un ricordo di essa particolarmente rimarchevole.

MARDUK – Warschau

Luca Venturini: Warschau è il terzo disco dal vivo dei Marduk e il primo, sempre dal vivo s’intende, con Mortuus alla voce. Ho già spiegato in questo articolo perché questi Marduk, quelli dal 2004 in avanti, ovvero da quando appunto è arrivato Mortuus, in studio, non mi piacciono. In versione live devo però fare una distinzione. Se sono al concerto, sarà l’adrenalina, mi divertono; sotto il palco è tutto un macello, è tutto ignorante. Sopra il palco invece loro si prendono talmente sul serio da fare tutto il giro ed essere quasi ridicoli, aumentando paradossalmente l’ignoranza generale. Un esempio fu quando Mortuus durante un concerto, nel 2009 a Soave in provincia di Verona, aveva in una mano il microfono e nell’altra una coppa con del finto sangue che avrebbe dovuto versarsi in testa; chinò il capo, chiuse gli occhi, ma, sentendo che dall’alto non colava niente, si accorse di aver alzato la mano col microfono. Purtroppo doveva ricominciare a cantare e non fece in tempo a fare quello che effettivamente doveva fare. Guai però a ridere: come minimo avrebbe tirato un calcio rotante sui denti al primo che si sarebbe azzardato. Su disco invece i Marduk di Mortuus sono insulsi. Non si capisce un cazzo, troppo veloci, troppo schiacciati su BPM di metronomo esageratamente elevati pure per le loro canzoni, che sono già velocissime in partenza. Sì, perché i Marduk sono un gruppo più elaborato di quanto voglia l’opinione più diffusa, e cioè che siano lì solo per far casino, come diceva bene Ciccio in questo articolo. I loro pezzi non sono fatti per andare oltre una certa velocità. Per capire di cosa parlo ascoltate la differenza di esecuzione che passa tra Slay the Nazarene suonata su Infernal Eternal e su Warschau. Oppure Burn My Coffin, meglio ancora. Se vi piace Warschau, buon per voi. Per me è solo rumore, non diverso da quello di un frullatore a immersione, e continuo ad ascoltare Infernal Eternal. 

THE ELYSIAN FIELDS – Suffering G.O.D. Almighty

Griffar: Tolto il solo debutto Adelain, di tutti i loro dischi il meno sperimentale, i greci The Elysian Fields nel tempo hanno costruito uno stile personalissimo che partecipa black metal puro, death/black di origine svedese, sonorità black tipiche della loro madrepatria e dei grandi nomi che ci accompagnano da sempre, e musica elettronica. Musica elettronica? Sì, e pure quella spinta ai limiti della techno, se vi interessa. Tra i pochissimi a tentare un simile connubio, per come la vedo io i The Elysian Fields sono degli assoluti geni. Riuscire a mischiare in modo credibile generi così diversi, senza dar vita ad un patchwork assurdo privo di senso e di senno, denota un estro compositivo e una capacità di costruire i brani al di fuori dalla portata del gruppo da cantina che si trova in sala prove il giovedì sera giusto per scolarsi qualche birra e fare un po’ di musica per ingannare il tempo, senza troppe ambizioni. Suffering G.O.D. Almighty è il loro quarto album di cinque totali e contiene nove sermoni di lunghezza moderata per un totale di circa 38 minuti. Come purtroppo accade troppo frequentemente, chi è così tanto all’avanguardia finisce per non essere compreso, e ciò che non viene compreso viene rifiutato come qualcosa di alieno o potenzialmente nocivo. I loro primi quattro dischi sono usciti ad intervalli regolari tra il 1995 ed il 2005, prima di poter ascoltare loro nuova musica sono dovuti passare 14 anni (New World Misanthropia è del 2019), da allora di nuovo silenzio. Cito di questo superbo album un brano per tutti, Ravished with Thee Light, sapendo di fare del torto a tutti gli altri. Ma questo vale da solo l’acquisto di tutto il CD e la riscoperta di tutta la loro musica.

ABSURD – Grimmige Volksmusic

Michele Romani: Degli Absurd avevo già parlato in occasione del precedente Blutgericht, a cui segue sempre nello stesso anno questo Ep Grimmige Volksmusic che dal punto di vista stilistico si discosta di pochissimo dal precedente, tanto che i due dischi sono stati pure pubblicati in un’unica edizione. Parliamo quindi sempre della fase di mezzo del gruppo tedesco, orfano dei suoi due membri storici ma portati fieramente avanti da Ronald Möbus, il fratello di Hendrik. Le influenze folk-pagan metal qui si fanno ancora più accentuate, anzi in alcuni tratti sembra proprio di sentire della musica popolare tedesca in chiave metal. Una di queste in realtà lo è, vale a dire la famigerata Des Wotans Schwarzer Haufen, una riproposizione azzeccatissima del famoso canto popolare Wir Sind Der Geyers Schwarzer Haufen, utilizzato più volte nel periodo della Germania nazionalsocialista come canto di battaglia. Il pezzo originale lo trovate facilmente su youtube, la versione degli Absurd invece appare e scompare che è un piacere da appunto vent’anni, i motivi è inutile che ve li stia a dire.

GRAND BELIAL’S KEY – Kosherat

Griffar: Credo che questo sia, assieme a Burzum, il gruppo più divisivo nella storia del black metal, il classico “li si ama o li si odia”. Ma non lasciano indifferenti, questo nonostante il misto neanche troppo ardito di black, death, thrash e punk non sia né strabiliante né insignificante. È il loro suono, e quando ci si imbatte in un loro pezzo li si riconosce subito. Non che faccia tutta questa differenza, i dischi di Gelal Necrosodomy sono fatti per essere ascoltati integralmente come si ascolta un’opera liturgica: si assiste ad una celebrazione, ad una commemorazione, comunque a qualcosa che ha un filo logico solo nella sua completezza e non necessariamente in una piccola parte di essa. Poi, ovviamente, possono esserci brani che piacciono di più o di meno tra tutti, anche perché Kosherat dura 61 minuti, non tutti i pezzi sono inediti e l’utilità delle due cover del gruppo crust/punk Chaos 88 poste in fondo al disco non è del tutto chiara, ma, ripeto, la loro musica non lascia indifferenti sia in senso positivo sia al contrario. Per di più i Grand Belial’s Key sono uno dei gruppi più blasfemi ed anticristiani di ogni epoca e questo vale anche al di fuori del black metal propriamente inteso; neanche Morbid Angel e Deicide sprigionano così tanto disprezzo e ludibrio nei confronti della religione cattolica come quello degli storici blackster americani, attivi già dal 1990. Molto dell’ostracismo che gli è stato riservato deriva da quest’approccio così duro e intransigente verso la religione, cosa che ovviamente da una parte gli ha garantito una fan-base di genuini veneratori e dall’altra gli ha chiuso le porte di molti negozi/siti di vendita. Kosherat è l’unico full che vede alla voce Grimnir Heretik, al secolo Richard Mills, fu proprietario dell’etichetta Vinland Winds e prematuramente deceduto ad appena 30 anni nel 2006.

THE STROKES – First Impressions of Earth

Luca Venturini: Nei primi anni 2000 i The Strokes erano ovunque. C’era un articolo che parlava di loro su ogni numero di qualsiasi rivista musicale, mainstream e non; MTV li passava a tutte le ore, letteralmente; nei locali dove suonavano
musica dal vivo, se il programma della serata prevedeva un dj set fino a notte tarda, state sicuri che avrebbero messo su un loro pezzo, verosimilmente Reptilia Last Nite. Il loro merito era l’aver tirato fuori un paio di ottimi album, Is This It del 2001 e Room on Fire del 2003, e l’aver dato il via, insieme agli inglesi The Libertines, a quel periodo di revival post-punk che durò poi pochi anni. L’essere dei bellocci, di New York, e un po’ raccomandati (il padre di uno dei due chitarristi era già ben inserito nel “music biz” anglosassone) (per non parlare del padre del cantante Julian Casablancas, ndbarg) amplificò un successo che, probabilmente, per qualsiasi altra band rock sarebbe stato impossibile raggiungere in quegli anni. Le aspettative per il terzo disco erano quindi alle stelle, nel 2005. Purtroppo per loro però, il periodo revivalistico a cui avevano dato inizio si era sviluppato per lo più in Regno Unito, dove pareva che ogni settimana venisse fuori una band nuova la quale avrebbe rubato la scena a quella della settimana precedente. Queste band pubblicavano giusto un demo, si facevano due foto da caricare su MySpace, erano composte da membri sempre più giovani, e duravano pochissimo prima che l’attenzione si spostasse sistematicamente sull’ultima arrivata. In questo fermento, i The Strokes, dopo appena 5 anni dal loro esordio, sembravano pezzi da museo. Di tutti questi ragazzini parevano essere i nonni, seppure non arrivassero ad avere 30 anni a testa. Ma è inutile nascondersi dietro un dito: First Impressions of Earth  fu un insuccesso perché non aveva i pezzi, semplicemente, e anche i singoli estratti erano poca roba e suonavano stanchi. Inoltre, la durata di oltre 50 minuti non aiutò. Ma se è vero che sembravano i nonni è anche vero che erano loro a trainare il carro delle vendite del revival, e quindi mantenere viva l’attenzione. Per questa ragione, quando i The Strokes cominciarono ad arrancare, fu l’inizio della fine per tutti. Non mancherà qualche colpa di coda, certo, come l’arrivo dei The Horrors, degli Arctic Monkeys, o dei Klaksons. Ma il tutto durerà ancora un paio di anni e poi ognuno andrà per la propria strada.

SOULFLY – Dark Ages

Barg: Allora amici, come avete passato il Natale? Mangiando e bevendo come maiali, magari con qualche cantuccino a sigillarvi lo stomaco dopo un sì lauto pasto? E allora cosa potrebbe esserci di meglio dell’ascolto di un bel disco dei Soulfly per favorirvi la digestione, con i suoi riff a grattugia sempre uguali e le veementi imprecazioni di Max Cavalera contro le ingiustizie del mondo? Io per esempio la sera della vigilia ho mangiato 400 grammi di pasta con le vongole. 400 grammi, non sto scherzando. E ovviamente non è stata l’unica cosa che ho mangiato. Potete immaginare le conseguenze sul mio apparato digerente, che a un certo punto mi sono accartocciato su me stesso e mi sono detto mai più, come quando ero ragazzino e tornavo da una serata di bevute con gli amici e stavo malissimo e mi promettevo che mai più nella vita avrei toccato un goccio di alcol. Ecco, sono questi i momenti in cui i Soulfly diventano utilissimi per smaltire tutto e ritornare come nuovi. Non basta neanche ascoltare tutto il disco, è sufficiente sentire i primi due pezzi e poi arrivare alla parte riflessiva e contemplativa a metà del terzo I and I e tutto sarà passato. Fatemi sapere se funziona.

GRAVEN – The Shadows Eternal Call

Griffar: Nel 2005 si conclude la saga invero assai breve dei Graven, side-project (anche) di Zingultus degli Endstille (e di Graupel, Morast, Nagelfar etc.) con il secondo album The Shadows Eternal Call, 8 brani di semplice, classico black metal scandinavo per palati non troppo fini che non vanno troppo per il sottile e gradiscono il classico tum-pa tum-pa tum-pa veloce in 4/4, il double time feel della batteria, lo stacco mid-tempo, lo stacco lento e qualche arrangiamento di chitarra meno basilare senza essere troppo complesso. Tutto molto norvegese, ma del resto già lo scrissi che The Shadows Eternal Call ricalca in tutto e per tutto il suo predecessore Perished and Forgotten, il quale della scena norvegese era piacevole emulatore. Inutile dilungarsi oltre, forse l’unica cosa che è cambiata è che la band è stata dichiarata ufficialmente sciolta e che Vargsang già non era più della partita.

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