Enslaved // Svalbard // Wayfarer @Legend Club, Milano – 16.03.2024

Arrivo purtroppo con un leggero ritardo sulla tabella di marcia e quando metto i piedi all’interno della sala concerti del Legend Club i Wayfarer hanno appena terminato e vari capannelli sono usciti, chi per reintegrare a livelli accettabili il tasso di nicotina nei loro corpi, chi per rifocillarsi e prendere una pinta. Avevo quasi sperato in un ritardo per non perdermi gli statunitensi, che ero molto curioso di sentire dal vivo dopo l’ottima prova del loro ultimo album American Gothic – che non ho inserito nella playlist di fine anno solo perché l’ho ascoltato quando ormai l’avevamo già pubblicata. Mi sarebbe piaciuto gustare dal vivo il loro black metal atmosferico, poi virato verso lidi più cari a Uada, Panzerfaust e Mgła e infine innestato di elementi country – se vogliamo, un percorso inverso a quello della recente ondata di goticone americane (Emma Ruth Rundle e Chelsea Wolfe su tutte) che dal country è arrivata al metal. Scherzi a parte, mea maxima culpa, organizzazione impeccabile e tabella di marcia della serata rispettata perfettamente, com’è giusto che sia.

La sala in cui entro è già impressionantemente gremita in attesa degli Svalbard. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è uno dei soliti gruppi viking proveniente da qualche isola nordica più o meno sperduta nel Mar Glaciale Artico – magari proprio quelle isole Svalbard dove i nostri irriducibili Charles e Ciccio sono andati a vedere i Manowar dal vivo e su cui poi DeMaio e compagni hanno fatto un documentario. No, gli Svalbard sono fondamentalmente un gruppo post-hardcore di Bristol che a un certo punto ha cominciato a inserire tremolo picking e altri elementi più tipici del black metal nelle sue canzoni – anche qui, se vogliamo, percorrendo il percorso inverso dei primi Celeste. Forse preferivo gli album dei loro albori, più propriamente post-hardcore e più incisivi, rispetto agli ultimi, maggiormente ibridati e con una ricerca più marcata di atmosfere sognanti. Preferisco anche le parti in cui è Liam Phelan (chitarra e voce) a cantare, piuttosto che Serena Cherry (anche lei chitarra e voce): paradossalmente la voce del primo è più acuta della voce della seconda e più legata agli stilemi del post-hardcore. Ad ogni modo, l’alternanza tra i due dona (insieme alla voce pulita di Serena Cherry che ogni tanto fa capolino) un po’ di varietà alle composizioni. Il pubblico apprezza molto e gli inglesi sembrano genuinamente felici di vedere un’accoglienza così calda – che in Inghilterra stiano tutti fermi e in silenzio a guardare i concerti?

Dopodiché arriva finalmente il momento degli Enslaved, che non vedo dal vivo dal 2016, quando suonarono al Traffic Club a Roma, con i Ne Obliviscaris di spalla. Ammetto che avevo un po’ di timore che potessi definitivamente ridimensionare in negativo uno dei gruppi per cui nutro più stima all’interno del panorama metal. Non sono riuscito ad apprezzare appieno le ultime uscite, almeno da Riitiir in poi. Mi sono sembrate sempre più fuori fuoco e mi hanno dato l’impressione che i norvegessi avessero potuto smarrire la bussola a causa delle loro continue sperimentazioni stilistiche. Fortunatamente la loro performance dal vivo ha totalmente spazzato via ogni timore o dubbio che io potessi avere. Anche le canzoni tratte dagli ultimi due album, Heimdal e Utgard, hanno funzionato benissimo. Anzi, vederli nuovamente mi è servito molto: l’ascolto dal vivo è per forza di cose più concentrato e focalizzato e ho potuto apprezzare ancora di più tutte le variabili stilistiche che ogni canzone mentre guardavo il mastodontico Ivar Bjørnson suonare i riff sulla sua chitarra.

A un certo punto arriva inevitabilmente anche il momento nostalgia, con canzoni tratte da Frost e dalla prima parte della loro carriera e ricordi condivisi tra gli Enslaved e una parte del pubblico sul primo tour che fecero in Italia negli anni Novanta. Per riportarci alla contemporaneità, un sempre scherzoso Grutle Kjellson ci chiede se preferiamo che suonino una cover della PFM, delle Orme o dei Goblin, o una delle loro canzoni influenzate dal prog rock italiani degli anni Settanta, per cui ci ringrazia pubblicamente. Quando poi ritornano sul palco per fare il bis si presentano e ringraziano dandosi nomi di musicisti italiani. Grutle diventa così “Giuseppe Verdi, alla chitarra” e tra una canzone e l’altra il pubblico inneggia “GIU-SEP-PE! GIU-SEP-PE!” e lui ride sornione.

Mi ci voleva un concerto per riconciliarmi con gli Enslaved. (Edoardo)

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