Frattaglie in saldo #59

Tra gli innumerevoli gruppi a chiamarsi come la nota città cotta flambé dall’irascibile Dio dell’Antico Testamento, i GOMORRHA mi hanno incuriosito perché la loro demo d’esordio è datata 1987 e il primo Lp è uscito solo un paio di mesi fa. Non solo, svariati pezzi di questo Doomed Mankind risalgono a più di tre decenni or sono ed è affascinante immaginare cosa abbia spinto questi arzilli renani a rimettere su la banda dopo 24 anni di inattività con l’obiettivo di incidere in modo decente quelle canzoni scritte quando avevano tutti più capelli e meno panza. La prima traccia attacca in modo pressoché identico a Devil’s Island dei Megadeth e qua capisci subito che l’originalità non è il forte di questi signori di Frankenthal, con lo sguardo rivolto molto più agli Usa che alla filiera thrash nazionale. Vengono in mente certe formazioni proto-death di confine, come Devastation e Morbid Saint e, nei momenti più truci, addirittura i primissimi Malevolent Creation. Nonostante la durata ragionevole (37 minuti scarsi), le strutture finiscono per risultare presto troppo ripetitive: intro lenta, mid-tempo, accelerazione e guizzi limitati agli assoli, dove spunta qualche linea melodica interessante. Eppure il disco prende bene e diverte nella sua assoluta mancanza di pretese. Visti con un litro di birra in mano in qualche fetida stamberga teutonica, potrebbero fare la loro porca figura.

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Passiamo a un altro gruppo la cui proposta sonora non mi ha impressionato chissà quanto ma che vale la pena menzionare per ragioni extramusicali. Come tacere a voi incliti lettori l’esistenza di un progetto denominato, attenzione, BODYBAG GARIBALDI? Cosa si era fumato Mauricio Mirapalheta, brasiliano trapiantato in Finlandia, prima di pensare che sarebbe stata un’idea fantastica infilare metaforicamente l’Eroe dei due mondi in un sacco per cadaveri? Il materiale contenuto in The Compi Tapes – ovvero, chi l’avrebbe mai detto, roba uscita negli anni precedenti in split, raccolte et similia – è assai meno ignorante di quanto suggerirebbero titoli come Bitch Ass Bitch o Overdosing At A House Party (eh, lo so, capita anche ai migliori). Un grind corretto da influenze death copiose e piuttosto moderne, lontano dalla tipica macelleria sudamericana e più vicino a certi nuovi vicini di casa del buon Mauricio, come i Rotten Sound. I momenti migliori sono quelli scapoccioni dove viene fuori una vena crossover thrash alla DRI. L’aria di cazzeggio fa perdonare qualche qualche giro a vuoto. Il vero neo è la produzione, fin troppo pulita.

Alziamo ulteriormente l’asticella dell’ignoranza con i ROTPIT, trio che vede unire le forze Johnny Petterson, un chitarrista svedese coinvolto in una miriade di gruppi più o meno underground tra cui vecchie glorie come Wombbath e Massacre, e il cantante e il batterista dei Revel In Flesh, il più scandinavo dei gruppi death tedeschi. Dalle premesse ci si attenderebbe il solito revival ma Let There Be Rot si rivela presto un lavoro più stimolante del previsto. Le obbligatorie reminiscenze degli Entombed non mancano, chiaro. Dovendo tirare fuori un mostro sacro, siamo però più dalle parti degli Autopsy, tra putrescenti afrori doom e minimalismi grindcore a cui fanno da contrappeso chitarre soliste ariose che spezzano la cappa di oppressivo marciume. Non vi cambieranno la vita ma, se è il vostro genere, date loro una chance.

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Il meglio ce lo siamo tenuti alla fine. Vi siete rotti le palle di tutte quelle band sbrodolone™ stigmatizzate da Piero nella recensione dell’ultimo Dying Fetus? Vi piacerebbe ascoltare qualcuno che suoni death tecnico alla vecchia senza per questo ripercorrere in modo pedissequo le orme dei maestri? Siete in cerca di un’alternativa meno fighetta ai Blood Incantation? Allora non dovete perdervi i BEGRAVEMENT, giovane quartetto del Minnesota il cui debutto sulla lunga distanza mi ha mandato alquanto in solluchero.

Nei solchi di Horrific Illusions Beckon si sentono i Death di Human, i Morbid Angel dell’epoca Tucker, il thrash della Bay Area, la scuola estrema di Stoccolma e, soprattutto, si sentono idee personali. L’inserimento di stacchi psichedelici sulla carta è incongruo ma funziona benissimo. E il livello tecnico è di tutto rispetto, con un basso nitido e presente, esaltato da una produzione equilibrata. I Begravement non avranno inventato nulla di rivoluzionario ma non viene in mente qualcuno a cui somiglino davvero, e questo è il miglior complimento si possa fare a musicisti dai riferimenti così classici. Applausi e battimani. (Ciccio Russo)

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