Avere vent’anni: PRIMAL SCREAM – Evil Heat

Evil Heat rappresenta l’ideale chiusura del periodo d’oro dei Primal Scream, anche se all’uscita venne incredibilmente sottovaluto, non compreso e visto come uno scialbo e poco ispirato seguito del precedente XTRMNTR. Pur non raggiungendo i vertici dei tre precedenti lavori – inarrivabili quasi per chiunque – Evil Heat resta un album impressionante per varietà della proposta e coerenza: è sia la summa che l’incrocio del percorso intrapreso da Screamadelica in poi. Un album in cui convivono in modo estremamente convincente il krautrock – esplicitamente richiamato – di Autobahn 66, i Velvet Underground “versione Hacienda” dell’iniziale Deep Hit of Morning Sun e le sonorità più vicine al precedente lavoro del trascinante singolo Miss Lucifer. Il tutto con un’attitudine da “buona la prima”, con un’istintività che non si trova nemmeno nei dischi più rock’n’roll della band (gli altrettanto sottovalutati Give out but Don’t Give up e Riot City Blues) e che è stata – e che continua ad essere – confusa con sciatteria, soprattutto da chi si incaponisce nel sezionare l’album, nell’analizzarlo in modo analitico e nel ricercarne riferimenti e precedenti.

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Questo significa non aver compreso lo spirito di Evil Heat e, in generale, l’indole di un gruppo come i Primal Scream. Evil Heat, infatti, ancora più dei precedenti lavori, deve essere valutato complessivamente, in modo unitario.

Si tratta di un album che rappresenta la “coda” di  sonorità e tematiche che ormai stavano diventando superate, una sorta di afterhour degli anni ’90, ormai terminati, che vengono celebrati per un’ultima volta in un clima di assoluta dissolutezza. Una babilonia ben incarnata da brani come il singolo/cover Some Velvet Morning con l’ospitata di Kate Moss, l’acidissima The Lord is my Shotgun e la dissonante Detroit con Jim Reid dei Jesus and Mary Chain (prima band in cui ha militato Gillespie) alla voce.

Poco importa se gli strali anticapitalistici di Rise (originariamente Bomb the Pentagon e rinominata dopo l’undici settembre) suonino davvero fuori tempo massimo, o se il brano più rock dell’album (Skull X) sia molto meno incisivo dei corrispettivi dei precedenti album. Perché, pur essendo presenti episodi, singolarmente considerati, meno riusciti, ogni pedina è perfettamente al suo posto nel disegno complessivo.

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Mentre il disco si avvia verso la conclusione, dopo una psichedelica e riuscitissima A Scanner Darkly si arriva al capolinea con due momenti di vera e propria decompressione – intervallati da Substance D, ottimo remix del compianto Andy Weatherall della summenzionata A Scanner Darkly – che rappresentano due degli episodi migliori dell’album. Una sorta di after dopo l’after, quando si esce ancora storditi da un locale tenendosi la testa tra le mani e non ci si ricorda nemmeno il proprio nome e si cerca solo un attimo di tranquillità: tutto questo è magnificamente ricreato dal gospel di Space Blues Number 2, “seguito” di Space Blues dei Felt, e dalla conclusiva Country Blues #1, classica, luminosa ballata stonesiana che fa quasi da ponte al successivo Riot City Blues.

Un disco splendidamente imperfetto che chiude il periodo maggiormente rappresentativo di Gillespie e soci -che comunque continueranno a pubblicare ottima musica- che non ha perso un briciolo del proprio smalto e che sarebbe ora di rivalutare definitivamente. (L’Azzeccagarbugli)

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