Avere vent’anni: ANDREW W.K. – I Get Wet

Secondo Thurston Moore, Jim O’Rourke e altra gente di rispetto che ai tempi diceva come pensare ai nerd di tutto il pianeta, il disco dell’anno per il 2000 è senza alcun dubbio Girls Own Juice, EP d’esordio di Andrew W.K. dopo una serie di cassette di rumorini uscite per l’etichetta di qualcuno dei Wolf Eyes (ai tempi non ancora famosi); roba per introdotti, la circolazione carbonara del tutto fuori da ogni peer-to-peer del pianeta, un nome da tirare fuori per svoltare nelle conversazioni tra nerd in cui vince chi piscia più lontano, un trick come Alla ricerca del tempo perduto, Il Decalogo e altri libri mai letti e film mai visti davvero. Ad ascoltarlo per la prima volta, molto tempo dopo, roba che mette i brividi, totalmente disconnessa, genuinamente inquietante perché letteralmente aliena. L’esplosione vera, il vero punto di non ritorno in coincidenza con il crollo delle torri gemelle, o poco prima o poco dopo (i ricordi per forza di cose diventano confusi), la virulenza per certi versi equiparabile, non essendo per noi che una serie di immagini a cui si fatica a credere: Party Hard, il video in rotazione nei canali televisivi che trasmettevano musica, ancora meglio la titanica esibizione al Saturday Night Live che resta tra i gesti atletici più impressionanti mai trasmessi da qualsiasi emittente, in ogni forma e in ogni tempo, restituivano l’immagine fumettistica di un capellone vestito da pizzaiolo o muratore (scarpe da ginnastica, pantaloni e maglietta, tutto bianco con qualche macchia di unto) e i suoi cenobiti, ognuno immediatamente riconoscibile – bassista farcito di steroidi, chitarrista-sosia di Frank Zappa in calzoncini corti e camicia hawaiana, secondo chitarrista maglia nera con logo Andrew W.K. in stampatello in rosso e taglio di capelli alla Michael Douglas/D-Fens in Un giorno di ordinaria follia, Donald Tardy degli Obituary alla batteria. Si era trasferito apposta in Florida Andrew per trovare gli elementi per formare una band, per incidere e portare dal vivo le sue canzoni. L’album, sulla cui copertina iniziano a circolare leggende urbane alimentate da cartelle stampa mefistofeliche prima ancora che se ne sia ascoltata una sola nota, esce in contemporanea, si intitola “divento bagnato” ed è l’ultima rivoluzione copernicana successa alla musica. Esplode in faccia come la rivelazione di una verità assoluta, fino ad allora per qualche incomprensibile motivo impossibile da cogliere; come il primo disco più importante della propria vita ascoltato per la prima volta. Azzerare tutti i ricordi precedenti e ripartire da zero. La prima sbronza. La prima serata in un locale. Il primo concerto. La prima pippata. Il primo istante in cui svariate sinapsi si disconnettono contemporaneamente, stomaco e cervello non interagiscono più l’uno con l’altro ed è il momento di correre a vomitare anche l’anima da qualche parte lontano. I Get Wet è l’essenza di tutto questo. Il disco da festa definitivo, con particolare inclinazione verso tutte quelle parti che il cervello per autocensura o autoconservazione poi rimuove: vari gradi di intossicazione alcolica o chimica, delirio di onnipotenza, scariche ormonali, vaneggiamenti, mani alzate senza un motivo valido, c’è dentro tutto quanto. Musicalmente un blocco unico, dove per qualche strano miracolo convergono in perfetta armonia Motorhead, Ministry, i muri di suono di Phil Spector e Kevin Shields, la grandeur dei dischi di Meat Loaf e i pezzi dei Sisters of Mercy scritti da Jim Steinman. Da un punto di vista lirico la questione si fa decisamente più oscura e problematica: non è assolutamente l’inno al divertimento spensierato e senza ombre che Andrew stesso tenterà di vendere successivamente, dopo essere letteralmente sparito dalla faccia della terra per svariati anni, abbastanza per ricomparire con un’immagine pubblica ripulita e farla franca via una serie di conferenze/seminari/programmi televisivi motivazionali alla Tom Cruise in Magnolia ma verso i regazzini bullizzati che non riescono a uscire di casa. Il lato oscuro di I Get Wet emerge in maniera spietata a soffermarsi sui testi: dove i ritornelli sono quasi sempre poco più che slogan sciacquacervello ripetuti all’infinito tipo training autogeno, il contenuto di varie strofe è inquietante a dire poco. Ready to Die per esempio:

È il tuo momento di pagare, questo è il tuo giorno del giudizio. Abbiamo fatto un sacrificio e ora procediamo a toglierti la vita. Spariamo senza una pistola, affronteremo chiunque, non è davvero niente di nuovo, è solo una cosa che ci piace fare. È meglio che ti prepari a morire, è meglio che ti prepari a uccidere. È ora che inizi a correre, perché stiamo arrivando. È meglio che ti prepari a morire (preparati a morire)

O anche I Get Wet, secondo alcuni la descrizione dell’attimo in cui si vede passare il cadavere del proprio nemico dalla riva del fiume, per altri un inno al cunnilingus, comunque nel finale rivela una morbosa fascinazione per la morte (altrui):

Divento bagnato ogni volta che piangi
Divento bagnato, so che stai morendo
Divento bagnato
(ripetuto 48 volte)

Più di tutti I love NYC, per pura coincidenza e con grande opportunismo “dedicata” alla città di New York post-11 settembre (il disco è stato registrato a luglio, mixato in agosto), in pratica un inquietante messaggio cifrato rivolto a chissà chi, alla editoriale di Eugenio Scalfari quando aveva individuato il nemico da eliminare:

Travolgili, investili, malmena il tuo quartiere e terrorizza la tua città. Muoviti negli angoli, spostati di lato, parla senza dire niente facendoti a pezzi. Siamo una società, siamo un’azienda, tagliamo in profondità ma taglieremo in profondità comunque, siamo tua madre-padre, siamo il tuo amico finale, non è mai iniziata e mai finirà

Poi certo, I love New York City/ Oh yeah, New York City ripetuto oltre la lobotomia; ma tutto il resto, perché? Meglio non chiederselo.

Seguirà tour mitologico, senza precedenti per catarsi collettiva e rilascio di energie, purtroppo mai passato neanche lontanamente da queste parti (parte di cosa sia stato si può comunque intuire nel DVD Who Knows? Live in Concert: 2000 – 2004); poi dissoluzione della band, secondo album registrato in solitaria cantando e suonando tutti gli strumenti, altro tour massacrante, disgregazione psicofisica del personaggio, sito hackerato, messaggi minatori da losche entità e varie storie allucinanti che alimenteranno teorie del complotto che quel che sta succedendo adesso diventa una scoreggia di mosca al confronto. I Get Wet ancora oggi per molti versi l’ultimo disco che valga la pena ascoltare. (Matteo Cortesi)

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