Avere vent’anni: febbraio 1997

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SODOM – ‘Til Death Do Us Unite

Ciccio Russo: Il luogo comune vorrebbe che i Sodom, dopo un periodo un po’ opaco e confuso, avessero ricominciato a spaccare culi nel ’99 con Code Red. Non è vero, ‘Til Death Do Us Unite spacca molto di più. Code Red era stato accolto come una svolta dai vecchi fan perché era il loro album più tradizionale da un po’ di tempo a quella parte. ‘Til Death Do Us Unite, invece, venne ricevuto con un po’ di sufficienza. A me piacque subito tantissimo, è la fine nonché l’apice del periodo punk dei tedeschi, quello del minimo storico di popolarità, quando non se ne fregavano un cazzo di niente. Rispetto a Get What You Deserve e Masquerade In Blood, la produzione è però molto più nitida e brutale e, soprattutto, ci sono più pezzi. Il lato A è tutto meraviglioso. C’è Fuck the Police. C’è Gisela. C’è Hanging Judge, tutte con un tiro allucinante. C’è pure qualche spruzzata maideniana al limite del death svedese (No Way Out). Recuperatelo, se all’epoca eravate, comprensibilmente, troppo occupati su altri fronti. Immortale la copertina.

PHLEBOTOMIZED – Skycontact

Piero Tola: Skycontact è uno di quei dischi che non furono capiti, ai tempi. I Phlebotomized erano reduci dal plumbeo Immense Intense Suspense, non certo privo di spunti interessanti ma comunque nero come la pece. La band ebbe vita breve dopo Skycontact, e fu un vero peccato: chissà cosa ci avrebbero regalato gli olandesi se non si fossero dissolti nel nulla proprio pochi mesi dopo l’uscita di questo autentico testamento spirituale. Si vede che le idee erano tante, e la summa di queste è evidente in pezzi come la suite in quattro parti I Hope You Know. Il suono è decisamente progressivo, senza però perdere d’occhio la potenza e la pesantezza che caratterizzava gli album precedenti, con quel marchio di fabbrica death-doom tipicamente nordeuropeo. Sono stati abbandonati dalla loro base perché avevano provato a fare qualcosa di ambizioso con questo lavoro. Hanno avuto il coraggio di rischiare e non furono ripagati. Peccato. Ora possiamo riascoltarli e renderci conto, anche se col senno di poi, che sarebbe potuta andare diversamente ed avremmo potuto sentire parlare di più dei Phlebotomized.

THE OFFSPRING – Ixnay on the Hombre

Stefano Greco: Ixnay On The Hombre è l’unico esito possibile quando vendi qualche milionata di album e non sai neanche tu bene come sia potuto succedere. A quel punto arriva il contratto con l’etichetta grossa e insieme con quello pure la ballad, gli autoplagi e i mid-tempo faciloni. E non basta chiamare Jello Biafra a dire quattro cazzate per ottenere il certificato di vera autenticità punk. Non si tratta di fare i talebani, Smash era melodico e accessibile ma non sbagliava un colpo, questo al contrario è veramente un disco fatto per compiacere qualcun altro. E’ difficile da spiegare, si sente e basta. Per gli Offspring il 1997 è artisticamente il punto di non ritorno, e questo nonostante due singoli grandiosi quali All I Want e Meaning Of lifeIxnay On The Hombre è quello che succede quando ad un certo punto tutti quelli intorno a te ripetono la parola ‘punk’ ma nessuno sa di cosa sta parlando.

Trainspotting: Nel 1997 io e i miei amichetti adolescenti eravamo convinti che gli Offspring rappresentassero l’essenza del vero punk anarchico e ammazzacristiani. Io già ascoltavo gli Emperor, quindi avrei dovuto intuire che c’era qualcosa che non andava, ma per qualche motivo ne ero convinto anche io. Smash era diventato in brevissimo tempo una nostra colonna sonora, Ixnay era uguale ma meno ispirato e più leggerino e plasticoso; a quell’età certe sfumature non le capisci e quindi impazzimmo di gioia al primo ascolto. In quel tour gli Offspring passarono al PalaEur, e fu il mio primo concerto rock in assoluto: ci andammo in sei, facendoci cinquecento chilometri fino a Roma, tutti minorenni tranne il simpatico furetto. Siccome eravamo appunto convintissimi di stare andando a guardare il gruppo più anticonformista e cazzuto della Terra, facemmo una cosa che eravamo convintissimi fosse anch’essa molto punk: ci tingemmo i capelli con le bombolette, ciascuno con un colore diverso; tranne il simpatico furetto, che temeva danni permanenti alla sua splendida chioma. Lui invece venne con un coltello a serramanico, perché evidentemente non temeva danni permanenti al suo culetto se fosse finito in cella. Ad ogni modo, riascoltato adesso, il disco ha una manciata di buoni pezzi e qualche riempitivo, ma mai nulla di davvero orribile; ma già dal disco successivo iniziai a vergognarmi di dire in giro che mi piacevano gli Offspring.

jouhou

DISCORDANCE AXIS – Jouhou

Ciccio Russo: Insieme a Misery Index, canto del cigno degli Assuck, Jouhou è uno dei dischi che getteranno le fondamenta delle derive più psicotiche e raffinate del grind 2.0 che verrà, dai Nasum in poi. Giri post-hardcore, inserti industrial/noise, qualche riff rubato alla vecchia scuola quasi come forma di rispetto, accelerazioni annichilenti, mid-tempo da sludge ante litteram, tempi che passano da pari a dispari di pochi secondi e, soprattutto, la mostruosa prestazione del tentacolare Dave Witte, uno dei batteristi chiave della scena. Nel frattempo suonava pure negli Human Remains, che lo stesso anno tireranno fuori l’altrettanto fondamentale Using Sickness As A Hero, e negli incommesurabili Exit 13, scoppiatissimo progetto a base di Thc in combutta con Dan Lilker. Qualche anno dopo lo ritroveremo nei purtroppo disciolti Burnt By The Sun, uno dei gruppi simbolo del periodo d’oro della Relapse.

BLUR – st

Trainspotting: I Blur erano un gruppo per fighetti dei college londinesi altolocati, e facevano musica per feste alcoliche a Chelsea dove ci si presenta in cravatta già ubriachi marci alle cinque di pomeriggio. A un certo punto, come spesso succede agli appartenti a codesta categoria, hanno iniziato a ritenersi persone sofisticate e raffinate, e hanno cambiato stile in accordo con questa convinzione. Il nuovo inizio è per l’appunto Blur, il quinto disco, nelle intenzioni una specie di noise rock apprezzabile dagli invitati alle feste di cui sopra, nella pratica una sequenza di canzoncine orecchiabili appena sporcate in fase di produzione, alternate qua e là da svarioni di sintetizzatori, rumori, campionamenti e puttanate un po’ da quinta elementare. Tradotto: se prima suonando canzoncine britpop cercavano di rimorchiare ragazzette stupidotte tendenti all’alcolismo, con questo album il loro target diventò l’intellettualoide sciattona con un paio di gatti dentro casa e con cui fare gli splendidi ai vernissage di terza categoria, che sono l’equivalente dei club per single (o della discoteca) per gente del genere. Del resto ognuno affronta l’avanzare dell’età come meglio crede. Albarn e soci avevano comunque il dono di saper scrivere belle canzoni, e di Blur ci rimangono quantomeno Beetlebum, Song 2 e You’re so Great, cantata da Graham Coxon. Non lo sentivo da un bel po’, ma me lo ricordavo meglio.

Stefano Greco: Anni passati sulle prime pagine dei tabloid in una incessante sfida chi è più famoso, più fico a chi ce l’ha più grosso. A chi pippa più cocaina, a chi ha più macchine da corsa, a chi è più spiritoso e intelligente. Ma la festa è bella che finita, la gente ha pagato il biglietto per assistere alla battaglia e ora sta per tornarsene a casa. Ad un tratto subentra la convinzione che stare in una band forse dovrebbe essere qualcosa di più che bere champagne dalla bottiglia a colazione ogni santo giorno. Blur è il classico disco del dopo sbornia. Beetlebum è il britpop è in piena fase down, e come ogni presa a male ha una sua dolcezza nella quale è bello indulgere. Poi sì, woo-hoo e tutto il resto ma è abbastanza ovvio che si sta celebrando un funerale. Passata mezz’ora arriva Death Of A Party e i protagonisti stessi ti avvisano che è giunta l’ora di riporre la Union Jack nell’armadio.

HELLCHILD – Circulating Contradiction

Ciccio Russo: Ok, questi sono davvero di culto ed è possibilissimo che non li abbiate mai sentiti nominare. Sono giapponesi. La maniera bizzarra, allo stesso tempo pedissequa e peculiarissima, con la quale i figli del Sol Levante interpretano il death metal del vecchio continente dà vita a risultati a volte incongrui, a volte notevolissimi. È il caso degli Hellchild, formatisi nel 1987 e ancora in teoria attivi nonostante l’ultimo full risalga al 2000 e da allora abbiano cacciato solo uno split e una raccolta. Per spiegare perché siano diversi dagli equivalenti europei bisognerebbe allargare il discorso a come i nipponici metabolizzino le influenze della nostra cultura pop e le interpretino in maniera imprevedibile. A loro viene più spontaneo alternare registri diversi. Un po’ come gli anime passano dalla tragedia alla commedia con una disinvoltura che in un prodotto artistico occidentale sarebbe inconcepibile, allo stesso modo gli Hellchild sbandano dal chitarrume groovoso basico novantiano (pur con esiti infinitamente migliori del 99% degli allora brulicanti emuli dei Sepultura) al death di Goteborg, da schiaffoni hardcore a rigurgiti entombediani. All’epoca non ricordo di averlo visto recensito da nessuna parte.

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LYCIA – Cold

Charles: Recuperiamo dalle brume del 1996 Cold, quello che ritengo il miglior album della lunga discografia degli americani Lycia e uno dei miei dischi preferiti in generale. Ne parlo con colpevole ritardo. Ethereal-Dark Wave nella sua più alta manifestazione: onirico ed estraniante, Cold, il freddo, il gelo. Nessun altro titolo poteva essere più azzeccato. Viaggio sognante nell’altrove metafisico e nel glaciale mondo intimo di Mike VanPortfleet, Tara Vanflower e David Galas, sotto una magistrale direzione del boss della Projekt, Sam Rosenthal, Cold è un percorso uroborico di sensazioni definitive che vanno dalla pace interiore alla depressione più irreversibile. Ascoltarlo a ripetizione, partecipando al suo ineluttabile senso di circolarità, mi ha sempre generato immagini di riti di purificazione indiani o di orazioni funebri Sioux, in cui sono rappresentate senza angoscia la morte e la rinascita ciclica della terra e dell’uomo. Un album sostanzialmente indescrivibile, che colpisce dentro e che va ascoltato non distrattamente, ma in modo esclusivo, concentrato e meditativo. Fatelo vostro assolutamente, ma fatene anche un accorto uso perché provoca fortissima dipendenza.

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DAVID BOWIE – Earthling

Stefano Greco: A chi se non Bowie sarebbe concesso di tirar fuori pezzi con il sound dei Prodigy e un’estetica alla Marilyn Manson senza beccarsi delle sonore pernacchie? A nessun’altro. Chiunque sarebbe stato tacciato di ridicolo ma non lui, un po’ perché il cambiamento è sempre stato la sua cifra stilistica, un po’ perché i pezzi ci sono davvero. Alla fine quando sai scrivere canzoni queste funzionano qualunque sia la confezione o sound decidi di appiccicargli sopra. Sempre un passo avanti a tutti, la collaborazione con Trent Reznor in I’m Afraid Of Americans oscilla su quella linea sottile tra genio e paraculaggine che è propria dei veri grandi. Earthling non sarà certo il suo più grande capolavoro ma nondimeno ha avuto il merito di farlo conoscere a gente che non sapeva manco bene chi fosse, me compreso.

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YEARNING – With Tragedies Adorned

Ciccio Russo: Alla svendita della Nosferatu records mi ero fatto mezzo catalogo. All’epoca la Holy Records era la mia casa discografica preferita insieme alla Osmose. E, come la Osmose, la Holy Records aveva una filosofia estetica molto precisa che la rendeva altrettanto anticommerciale e di kvlto, per quanto l’etichetta francese avesse gusti decisamente opposti rispetto alla connazionale, più orientati sulla melodia mortuaria e la contaminazione. Era un po’ la Prophecy degli anni ’90. Nel carniere della Holy Records c’erano alcuni dei gruppi estremi più inclassificabili e creativi dell’epoca. C’erano gli Elend. C’erano gli Orphaned Land. C’erano le band più sui generis della scena greca. Nightfall, Septic Flesh, On Thorns I Lay. Tra tutto questo ben di diavolo, rischiava di passare inosservato pure un gioiellino come l’esordio degli Yearning. Il loro doom è più armonico e gentile dei raggelanti incubi dei parimenti finlandesi Unholy. La matrice resta la scuola inglese di Paradise Lost e My Dying Bride. Le contaminazioni folk/black di pezzi come la bellissima Temple of Sagal anticipano però di anni gli Empyrium. Percussioni, chitarre acustiche, flauti. With Tragedies Adorned ha quella vena sperimentale ingenua e anarcoide, mai pretenziosa, e quella capacità di saltare di palo in frasca senza mai inciampare che rendono (almeno per chi è cresciuto con questa roba, immagino) commoventi certi grandi dischi minori di quel periodo.

15 commenti

  • La copertina dei Sodom è effettivamente indimenticabile.
    “Ixnay On The Hombre” continua a non sembrarmi così brutto come lo descrive El Greco; magari è la memoria, ma averne adesso gruppi di hardcore melodico (ma esiste ancora?) che inanellano su uno stesso disco “The Meaning Of Life”, “Cool To Hate”, “Leave It Behind”, “Gone Away” e All I Want”.
    Grazie per i Lycia: non esattamente il mio ascolto abituale ma sembrano interessanti e da apprezzare dopo ascolti ripetuti e selezionati nei momenti adatti.
    I Blur…”Song 2″ e basta, ma solo perché era la colonna sonora di FIFA 98.

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    • eh ma smash era un altro passo proprio

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    • da pischello ixnay on the hombre mi sembrava una figata pazzesca… poi non mi ha più fatto quell’effetto, ma non è mai riuscito neanche a sembrarmi una ciofeca allucinante… detto ciò è vero, invecchiando mi sono reso conto che il passo con smash, non lo tiene proprio.. però continuo a considerarlo un album godibile, buono per qualche revival nostalgico in cameretta, in pomeriggi dove non sai come ammazzare il tempo, o per qualche serata dove sei ubriaco in macchina a fare danni sul sedile del passeggero, mentre urli ai passanti a finestrino abbassato, credendo di dare lezioni di bel canto… chissà come mai, come Trainspotting, anch’io da sbarbato pensavo che gli Offspring fossero i peggio punk/anarcoidi/contro tutto/tutti/viodiocrepatemerde/fuckthesystem vattelappesca……. vabbeh, bei tempi ingenui i 13 anni….

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  • robè, io pure mi ricordo gli offspring al palaeur ma era il tour di americana, concerto demmerda peraltro.

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  • ok, della data di uscita di ‘americana’ è vero. però era il tour di ‘ixnay’, ho anche chiesto ai miei compari: aprirono con ‘all i want’ e se avessero fatto ‘pretty fly’ me lo sarei ricordato.

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  • sto mese passo, i miei sarebbero stati edge of sanity / infernal, immortal / blizzard beasts oltre al già citato something wild…

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  • Adoro i Sodom, li conobbi con Agent orange e me ne innamorai subito. Ma nel 94, quando uscì Get what u deserve…per me non esistè altro se non quell’album fino all’uscita di Masquerade in blood e del sucessivo Till death. Il trio punky-Thrash dei Sodom è stato senza dubbio il mio preferito della loro carriera, al contrario dell’ultima tripletta di album che trovo abbastanza noiosi. I motorhead tedeschi li definì qualcuno a quei tempi, mentre altri (una certa rivista dell’epoca) gli affibiò un 2 definendoli dei dinosauri.

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