HYPOCRISY – End Of Disclosure (Nuclear Blast)

Gli Hypocrisy sono sempre stati indecifrabili, o comunque non completamente inquadrabili nella proverbiale definizione di gruppo più americano tra gli svedesi. Se erano un unicum nella prima parte della loro carriera (quella più grezza di Penetralia/Osculum Oscenum) e ancor più nella seconda parte, quella più nota (diciamo da Fourth Dimension fino all’omonimo), a maggior ragione lo sono adesso, che sono invecchiati in maniera completamente diversa dai loro conterranei. Con il tempo Peter Tägtgren non è diventato più svedese o più americano, ma ha percorso un’evoluzione perfettamente coerente con il proprio stile. Questo vuol dire che gli Hypocrisy fanno lo stesso disco da circa vent’anni, ma anche che continuano a non assomigliare per nulla agli Entombed o agli In Flames o a un qualsiasi altro gruppo sopravvissuto alla scena death svedese anni novanta. End Of Disclosure è un tipico disco degli Hypocrisy, qualunque cosa ciò voglia dire. Suono riconoscibilissimo degli Abyss Studios, atmosfere rarefatte nelle parti più cadenzate, incapacità di collocare spazialmente le influenze, e il solito immobilismo sonoro che, a parte sporadiche parentesi, li caratterizza da appunto Fourth Dimension in poi.

Dato che sono un gruppo che non ha più nulla da dire da quasi quindici anni, End Of Disclosure si indirizza esclusivamente a chi dalla band di Peter Tägtgren accetterebbe qualsiasi cosa che gli dia un vago ricordo di ciò che è stato; tra cui io, che ho sempre avuto un debole per il loro suono, le loro atmosfere e il loro riffing straniante e spesso tendente al black più che al death classico. Quest’ultimo album è secondo me migliore del precedente A Taste Of Extreme Divinity, specie nei momenti più sostenuti come The Eye o 44 Double Zero; anche se rimarrà impresso il colpo di testa di Hell Is Where I Stay, più legata ai Morbid Angel vecchia maniera e, in un certo senso, al metal classico. Prevedibilmente però il singolo scelto è la titletrack, il tipico pezzo acchiappone in midtempo col ritornello da concerto, il giro di tastiere orecchiabile e il riffing aperto; un canone già usato con Roswell 47 (da Abducted) che rimane tuttora il loro cavallo di battaglia. Il mio parere personale è che facciano abuso delle tastiere; una tendenza che hanno sempre avuto ma che con il tempo è diventata eccessiva, e che li rende un po’ mosci. A me personalmente piace molto il suono delle loro chitarre, e ascoltando The Eye penso che se suonassero sempre così, con quelle chitarre grasse e ribassate in palm muting poste in primo piano, sarei disposto davvero ad accettare un disco di soli rutti e flatulenze.  Le mie pretese si alzano un po’ se devo affogare in un mare di tastiere e accordi aperti, ma per questa volta può andare bene così. (barg)

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