NOVEMBRE – Words of Indigo
I Novembre sono, nella migliore accezione possibile, una capsula spazio-temporale. Ogni loro album che, ahinoi, esce a cadenze non troppo ravvicinate, mi riporta idealmente ad un lasso temporale che va dalla metà degli anni ‘90 alla prima metà dei Duemila: un periodo in cui, in ambito metal, come è noto, si è sperimentato tantissimo e partendo da territori più estremi si sono raggiunti lidi – nel caso dei Novembre – solo apparentemente distanti, da una certa wave a echi di cantautorato, e si è cercato di contrapporre strutture di base molto cupe e pesanti ad un lirismo a dir poco sorprendente. La differenza con le altre band di questa “corrente” (pensiamo, semplificando il discorso, a Opeth e Katatonia) è che queste hanno mutato molte volte pelle e suono, mentre per i Novembre la questione è diversa. Pur avendo pubblicato dischi estremamente diversi – basti pensare all’esordio, Arte 900 e Novembrine Waltz – e ad aver cambiato approccio anche sotto un punto di vista produttivo, il suono, l’anima della band di Carmelo Orlando è quella ed è perfettamente e meravigliosamente collocabile in quel decennio. E se per alcuni gruppi questo può risultare “anacronistico” e far sembrare certi album quasi da “riserva protetta” (e comunque, in alcuni casi, non c’è niente di male), per i siculo-capitolini, invece, è coerente affermazione di una personalità che non si piega a mode, a tendenze e a mutamenti nell’umore collettivo. I Novembre, indipendentemente dal tipo di disco che pubblicano, se più melodico, più aggressivo, più strutturato o lineare, restano sempre i Novembre.
Words of Indigo è qui a dimostrarcelo e a ribadire con ancor più forza questo concetto, e lo fa nel migliore dei modi: un ottimo, davvero ottimo album a metà strada tra il precedente Ursa e Materia, con alcuni richiami, soprattutto nelle chitarre, a Novembrine Waltz. E se parliamo di chitarre, non può che menzionarsi la definitiva sostituzione di Massimiliano Pagliuso, storico membro della band, con Alessio Erru – già presente dal 2018 – e Federico Albanese, dopo ben ventotto anni. Se dispiace perdere l’ultimo membro storico dei Novembre -ovviamente escludendo Carmelo Orlando- va detto che la coppia Erru/Albanese non solo si inserisce perfettamente nel suono della band, ma conferisce nuova linfa alle loro composizioni, con un contributo ancor più fuori dalle logiche contemporanee: assoli lunghi e complessi che spaziano tra generi (e che in alcuni punti hanno un che di gilmouriano) e un approccio senz’altro più tecnico anche nelle parti ritmiche e nei bridge; il tutto senza far perdere neanche un briciolo della carica emotiva che ha da sempre contraddistinto il gruppo capitolino.
Basta ascoltare l’iniziale, splendida, Sun Magenta per rendersene conto. Un’atmosfera molto vicina – anche nel cantato – a Materia, una contrapposizione tra ritmiche più serrate e momenti più eterei e melodici affidati proprio alle chitarre (con tanti di armonici in primo piano). Un lavoro molto incentrato su questa doppia anima, come nella successiva Statua, vicina al precedente Ursa, con un riff vicino ai Katatonia dei primi 2000 e che poi si interrompe a circa tre quarti con un break figlio di Classica, che ci offre l’occasione per fare un plauso alla produzione – di Dan Swano, tanto per restare in tema di capsula spazio-temporale, così come l’artwork di Travis Smith – capace di far risaltare al meglio ogni elemento, senza “illuminare” troppo le zone d’ombra create dai Novembre.
E di ombra, in questo Words of Indigo, ce n’è tanta, come nella semplicemente magnifica Neptunian Hearts, che per quanto mi riguarda è da ascrivere ai migliori brani mai composti dai Nostri, con un’accelerazione da brividi e un equilibrio a dir poco perfetto che di spezza con un assolo e un attacco violentissimo. Perché in Words of Indigo c’è spazio anche per tanta violenza, come nella notevole Chiesa all’Alba, molto vicina ai “vecchi” Novembre, così come in Post Poetic, brani che si scontano, quasi cromaticamente, con pezzi dall’anima melodica – accentuata dalle partiture di chitarra – di una Your Holocene o di una House of Rain, impreziosita dalla presenza di Ann-Mari Edvardsen dei The 3rd and the Mortal, tra gli apici del disco.
Un album che si colloca tra i vertici del gruppo, giusto una spanna sotto dei loro classici per me inarrivabili e che dimostra ancora una volta che la personalità di un gruppo come i Novembre è davvero merce rara oggigiorno e che il 2025, per i generi più disparati, è stara davvero un’annata straordinaria per la musica italiana. (L’Azzeccagarbugli)


Non lo so Azzeccagarbù, a me sto disco non ha convinto per niente. Senza contare i terrificanti difetti sull’impostazione delle voci pulite. Ma è una questione più generale che vi risparmio volentieri.
Ovviamente lo dico con il massimo rispetto per una band che ha fatto la storia.
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Fanta concordo pienamente. Le voci in teoria sono quelle classiche dei Novembre, ma in questo disco mi sembrano troppo strascicate e forzatamente lamentose. In “Ursa” ad esempio questo problema non lo sento.
E mi dispiace molto parlarne in questi termini, anche perchè sono per me una delle migliori realtà uscite dal nostro paese.
Sulla musica non discuto perchè per me ottimi erano e ottimi rimangono.
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Non ho mai capito quali fossero i migliori dischi dei Novembre; voi cosa dite? Io sono indeciso tra Classica e Novembrin Waltz.
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Vado controcorrente:
io amo tantissimo Arte Novecento e Dreams d’Azur. Quest’ultimo altro non è che la registrazione ex novo del loro primo disco.
Solitamente odio questo tipo di operazioni ma in tal caso è l’eccezione che conferma la regola. C’era talmente tanta qualità in Wish i could Dream It Again, un’enorme qualità, che sarebbe stato un peccato lasciarlo in balìa delle ingenuità di cui abbonda.
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