Un mondo che non gira solo intorno a QOTSA e Kyuss: intervista a Nick Oliveri

Nick Oliveri è oramai quasi presenza fissa nell’ambiente concertistico romano. A questo giro abbiamo avuto anche il piacere di incontrarlo prima del concerto tenuto all’Alibi Club. La nostra chiacchierata inizia poco dopo aver osservato lui intento a guardare un filmato sul suo smartphone con un certo orgoglio.

Cosa stavi guardando?

Un nuovo videoclip che mi riguarda e che hanno appena montato.

Quando uscirà?

A breve avrete notizie ufficiali.

Va bene. Allora parto con una serie di domande che proverò a farti rispettando una sorta di ordine cronologico. Quindi iniziando dagli esordi. Non tutti sanno che tu iniziasti come chitarrista per poi passare al basso. Come mai questa scelta?

Originariamente, era più un adattarsi alla situazione. Agli esordi con i Kyuss ero un secondo chitarrista ma, una volta rientrato in formazione mesi dopo, avevano bisogno di un basso.

Wretch ha due pezzi che sono stati co-scritti assieme a te, Son of a Bitch e The Law. Ricordi qualcosa di quelle registrazioni?

La band aveva già una manciata di brani registrati dall’EP Sons of Kyuss. Su Son of a Bitch diedi una mano un po’ il testo, la chitarra e la parte prima dell’ultimo ritornello. Su The Law sistemai un po’ del testo, non del tutto ma una parte. Scrivemmo anche altre cose ma, quando si trattò di registrare, scegliemmo le migliori a prescindere da chi avesse scritto cosa. Cercavamo di tenere a bada qualsiasi egocentrismo.

Nei concerti dei Kyuss succedevano a volte cose abbastanza folli. Qual è la più assurda che vi sia mai successa?

Agli esordi ci capitava di rompere il nostro equipaggiamento di continuo. Una sera John Garcia ci mise troppa foga e ruppe il suo microfono. A quel punto decisi di prestargli il mio ma, dopo un po’, fece una brutta fine pure quello. A quel punto passammo al microfono del pedale e… Sfasciò pure quello! E io pensai: “Oh cazzo, e mo come faremo?”. Però sai, eravamo così giovani e inesperti che ci lasciavamo prendere dalla foga.

In Blues for the Red Sun tu scrivesti Mondo Generator, che poi diventò anche il nome della tua band. Sarebbe stato un finale perfetto per il disco, eppure voi decideste di aggiungere una traccia ulteriore di cinque secondi in cui John si limita a esclamare un “yeah!”. C’era una ragione specifica?

Eravamo convinti che quella cosa funzionasse. A fine traccia c’era quel feedback che è come se venisse zittito da quella voce. Era una scelta buffa.

Era quindi una maniera per dire alla gente “oh, non prendeteci troppo sul serio”?

Sì, una roba simile.

In Kyuss Lives! tu hai suonato anche i pezzi provenienti da due album che originariamente non hai registrato (Welcome to Sky Valley e …And the Circus Leaves Town). Per te è stata una sfida? Perché Scott Reeder ha uno stile quasi in antitesi con il tuo.

Beh, sì. Lui è mancino e usa accordature tutte sue, quindi ho dovuto ripensare i pezzi nel mio stile dopo aver ripassato i pezzi che avevo già scritto io. Scott [Reeder] è un grande bassista. Un vantaggio di ristudiare certi arrangiamenti è che mi sono sentito bene CircusValley mi è sempre piaciuto, ma l’ultimo a suo tempo lo avevo solo ascoltato di sfuggita. Ora che l’ho ripassato bene penso sia un gran disco. Più inconsueto degli altri come struttura delle canzoni. Davvero figo.

Josh ti chiese di entrare nei Queens dopo averti visto sputare fiamme completamente nudo in un concerto in Texas del 1998. Poi, quando uscì il primo disco, ti si sente negli ultimi istanti della canzone, mentre lasci un messaggio nella segreteria di Josh, dicendogli che accetti l’incarico. Cosa accadde tra i due episodi?

Nella prima occasione lui mi propose di tornare dal Texas alla California. Gli mandai un messaggio dicendo che lo avrei fatto. Misi la mia roba in macchina e partii direzione California. Avevo un appartamento con una stanza in più per Josh a Palm Springs per sei mesi e ci mettemmo a ripassare i brani lì in attesa del tour. L’omonimo non era ancora uscito e ci presentammo in tre sul palco e poi aggiungemmo Dave Catching alla lap steel e altri strumenti. In quella maniera provammo nuove soluzioni che poi si sentono in Rated R. Però sì, tornando al discorso principale, io mi trasferii subito in California e lavoravamo pressoché non stop. Se non eravamo in tour, ci trovavamo impegnati a scrivere nuovo materiale e viceversa. Cinque anni di fila in cui rimanemmo concentrati e affamati costantemente, un crescendo che ci portò a fare diventare Songs for the Deaf ciò che è diventato. Io e Josh soprattutto vivevamo a stretto contatto e davvero determinati a portare avanti i Queens of the Stone Age. Credo si possa percepire tutto ciò, mettendo un nostro disco o guardandoci suonare in quei concerti. E con noi in Songs c’erano Dave Grohl e Mark Lanegan, era l’apice. Poi le cose presero una piega differente, ma è normale; per esempio, non puoi sperare di avere Mark Lanegan e Dave Grohl tutti i giorni. Arrivò però Castillo che è comunque un grandissimo, uno dei migliori con cui io abbia mai suonato, riuscimmo a fare un bel tour di supporto anche grazie alla sua presenza. In generale posso dire che fummo fortunati.

In quel periodo tu hai collaborato anche al progetto Desert Session. Come descriveresti la cosa a una persona che non ne ha mai sentito parlarne?

Praticamente è un party. Dove tutti si divertono e portano le idee per le loro canzoni. Dici: “Dai, suoniamoci su!” e sei subito lì a registrare senza tanti giri di parole. Ottieni un risultato naturale e senza tanti orpelli. Tipo: “Io ho la prima parte” e poi magari arriva un altro musicista a dire: “Mi sembra di avere una buona idea per continuarla” e la si prova immediatamente. Poi magari oggi le fanno più arrangiate e ponderate, ma ai nostri tempi era tutta una questione di istinto. E mi piaceva star lì a guardare Josh mentre assemblava queste cose in maniera istantanea. Rifletteva in parte come lavoravamo per le prime fasi dei dischi dei Queens. Ed è come in generale mi piacerebbe sempre fare i dischi. Credo ci sia della magia a fare musica in questa maniera.

Due cose mi hanno sempre incuriosito di Rated RAutopilot e l’attacco di Quick to the Pointless. Cosa ti ispirò la composizione del primo dei due pezzi e come mai esclami “Non so nemmeno cosa dovrei fare qui” all’inizio del secondo?

Riguardo Quick, finì nel nastro la mia reazione di quando mi misero davanti al microfono la prima volta per cantarla. Dovevamo fare una sorta di primo provino per fissare la melodia e Josh mi disse solo: “Canta”, ma io non avevo ancora un’idea precisa e me ne uscii fuori così. Poi partì la base e semplicemente improvvisai.

Quindi quella parte fu tirata fuori al momento.

Esatto. Agli altri piacque il fatto che la prima take fu completata in scioltezza e la lasciammo così.

Gran bella cosa, e riguardo Autopilot?

Il mio miglior amico, John Carden, morì di overdose da eroina in quel periodo. Scrissi Autopilot per lui. Pensai fosse un buon tributo.

Una delle cose che credo caratterizzino Songs for the Deaf sono quelle backing vocals sussurrate che sono registrate da te.

Mettono inquietudine, è vero?

Esatto, come ti vennero in mente?

Era il mio tentativo di aggiungere strati e profondità alle canzoni, un elemento che è poi rimasto presente in tutto il disco e accentua la componente bizzarra e oscura di certe composizioni. Le provavamo tutte, cercando di registrare i cori magari più a destra, poi più a sinistra e così via, anche perché non era il caso di usare il mio stile di urlato per ogni pezzo. In generale in quell’album abbiamo un buon approccio melodico, Josh usa il suo bel falsetto che gli riesce proprio bene e io provavo a usare il respiro in svariati modi. A volte era pure complicato, tra le sigarette che mi fumavo e altre cose dovevo davvero spingermi al limite, soprattutto poi per ricrearle dal vivo. Tipo in Do it Again o Monsters in the Parasol. Poi era un gioco delle parti. Io non so usare quel falsetto di Josh.

…e lui non  sa urlare come te.

Esatto. Ci coprivamo le spalle a vicenda e praticamente imparammo a cantare assieme, magari facendolo male davanti agli spettatori, in mezzo ai concerti. Mi è capitato di rivedermi qualche show su YouTube del Bizzarre 1998 o ’99 (era il 1998, ndr) e pensare: “Accidenti, ne abbiamo fatta di strada da allora”. Ma immagino che, per la tipologia di musica che suonavamo ai tempi, l’audience era portata a perdonarci per le nostre sbavature, o al massimo si dava la colpa al fonico. Alla fine nessuno di noi due aveva mai fatto il cantante in una band prima di allora. Ai giorni d’oggi lui penso sia ottimo dietro al microfono e credo sia più a suo agio a cantare per conto suo. Ai tempi probabilmente era un po’ più insicuro e preferiva avere me e Mark [Lanegan] a coprirci le spalle l’un con l’altro. Ognuno sapeva fare una cosa diversa in quel trio di voci. Josh presto si è sentito più a suo agio a cantare, io ci ho messo più tempo.

Per me siete stati un po’ i Crosby, Stills & Nash dell’hard rock.

Ahaha, mi piace come paragone!

Vorrei chiederti cosa c’è dietro allo scatto della copertina di Cocaine Rodeo dei Mondo Generator, che secondo me è iconica.

Ci sono io che preparo cocktail nel backstage di un concerto dei Queens of the Stone Age. Capitava spesso nel periodo, che preparassi tipo i Lemon Drop (vodka, limone, liquore all’arancia, sciroppo di zucchero, ndr) e solitamente bevevamo durante il soundcheck, ci scolavamo una bottiglia intera e passavamo alla successiva e così via. Era una consuetudine nel periodo. E lì mi si vede proprio con espressione divertita che me la sto spassando.

In Cocaine Rodeo c’è Simple Exploding Man, che è una delle mie tracce preferite che tu abbia mai composto. Come venne fuori?

Lì ci sono io al basso, Brant Bjork (il batterista dei Kyuss) alla batteria e Josh alla chitarra; ai cori ci sono sia John Garcia che Chris Goss (produttore dei Kyuss dal secondo album in poi).

Ah, non sapevo di Goss.

La registrammo da lui a Palm Springs ai Monkey Studios. Faceva parte delle prime tre che registrai. Avevo questa band in Texas con Brent Malkus e Rob Oswald con i quali avevo registrato altri dieci pezzi, ma quei tre aggiuntivi facevano parte di alcune idee che mi erano venute ai tempi dei Kyuss e volevo registrarle dove ero solito suonare un tempo e con gli amici di sempre con cui ai tempi provavo. E le suonammo alla maniera delle Desert Session: mostrando ai ragazzi lo scheletro dei pezzi e poi andando a sistemare in tempo reale ogni parte della struttura. Uno o due provini e avevamo già finito.

Quindi parte di Cocaine Rodeo fu incisa con lo spirito delle Desert Session alle quali avevi partecipato.

Esattamente. Le tre canzoni fatte con Josh e Brant le ho sistemate in un giorno. Le altre mi hanno richiesto un po’ più di tempo, ma comunque è stato un lavoro rapido. In studio di registrazione sono stato due giorni, uno per le basi e uno per le voci, chitarra e sovraincisioni e mixaggio. E questo è Cocaine Rodeo! Anche perché non è che ci fossero chissà quali soldi per perdere altro tempo. Avevo preso un assegno di royalties per aver suonato in un album dei Dwarves di 200 dollari e li ho investiti lì direttamente. Andai dal Texas a Palm Springs e sistemai le cose. Non c’erano nemmeno soldi per gli hotel tra le due tratte, ci accampavamo la sera per risparmiare e la mattina subito in viaggio.

Una roba folle insomma.

Eh, già.

Credo che Dead Planet sia il tuo lavoro più punk in assoluto. Ti va di raccontarmi qualcosa in merito alla produzione di quel disco?

Sì, beh, fu il primo disco che feci dopo essere stato allontanato dai Queens, volevo essere sicuro di terminarlo nei tempi giusti. La persona che organizzava i miei show in Inghilterra aveva un ragazzo che gestiva una casa discografica. Ci furono un po’ di casini ma andò bene alla fine. Un sacco di musicisti entravano e uscivano dal progetto perché volevo fare cose diverse in situazioni diverse. Iniziammo a registrare negli studio di Dave Grohl con buoni risultati e poi ci fu il mio amico Mathias Schneeberger, che ha suonato anche nei Masters of Reality, ad aiutarmi a finirlo, avendo uno studio di registrazione ed essendo sia un buon produttore che tecnico del suono. Il risultato è davvero buono. Invece Fuck It fu realizzato grazie a Thee Slayer Hippy, ovvero Steve Hanford dei Poison Idea. In generale ora lavoro molto con Mike, il chitarrista. Scriviamo un botto assieme e credo questa sia la migliore versione dei Mondo Generator che abbiamo mai avuto. In generale, gli album sono ottime scuse per invitare qualche amico e fare qualcosa assieme.

Molti anni fa tu registrati con Dave Grohl una cover di Iggy Pop, Dog Food. Perché proprio quella?

La produzione di questo film australiano chiamato Frame 137 chiese a Iggy Pop il permesso per usare Dog Food. Lui rispose che di diritti costava un po’, ma, se ne avessero fatto una cover, le spese sarebbero state di sicuro più basse. Chiesero di farlo a noi come Mondo Generator e accettammo. Non ricordo se il film poi effettivamente uscì [sì, ndr]. In generale io sono più un conservatore, appassionato della roba con Ron Asheton e gli Stooges, però apprezzo anche roba solista di Iggy, tipo una manciata di tracce con Matlock [dall’album Soldier]. Tornando all’argomento principale, Dog Food mi piace, ma avrei scelto qualche altro pezzo.

Tipo?

Tipo qualcosa degli Stooges. Penso Dirt sarebbe una ottima scelta. O anche TV Eye. Aggiungerei I Wanna Be Your Dog ma è già molto inflazionata. Pure Search and Destroy, però oh, gran canzone pure quella.

Effettivamente non so se esistano belle cover di Dirt. Tornando a noi, l’anno scorso in alcune date hai dedicato Invisible Like the Sky a Mark Lanegan. Immagino anche lui abbia avuto un’importanza considerevole nella tua esistenza. Tu che hai avuto la fortuna di averlo come amico, come lo definiresti?

Mark era una persona molto spiritosa, nonostante la sua musica fosse davvero oscura, e quindi magari qualcuno se ne faceva inizialmente una impressione molto diversa.

Perché c’era del sarcasmo nel suo modo di porsi, vero?

Sì, faceva parte del suo personaggio. Però quando interagiva con sua moglie o con i suoi amici era molto affettuoso e simpatico.

Tu iniziasti la carriera solista dal vivo praticamente accanto a lui.

Esatto. Nei giorni liberi dei tour dei Queens facevamo il giro dei negozi di dischi che magari avevano un piccolo palco e chiedevamo se potevamo esibirci lì. In cambio ci davano dei dischi o dei gadget musicali. Mark era una persona stupenda, parlare di lui mi commuove. Mi manca molto e sono orgoglioso di poterlo definire mio amico, allo stesso tempo sono triste pensando che non c’è più. Lo ricorderò sempre per la sua musica e per la sua gentilezza. Che voce, che cantante. Non conosco nessuno della mia età che riuscisse ad arrivare a quei registri vocali.

Alla Tom Waits…

Mark è stato il Tom Waits della nostra generazione. Non potrei mai replicare ciò che era capace di fare con il microfono in mano. Né come note, né come interpretazioni. Riusciva davvero a svelare i tuoi sentimenti, perché quelle cose le provava anche lui sulla sua pelle, e quindi era inevitabile immedesimarsi. Se ti limiti a urlare, è facile far capire al pubblico che sei incazzato. Esprimersi invece con certi timbri cupi e bassi e colpire ugualmente chi ti ascolta è roba per pochi. (Federico Francesco Falco)

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