On the (Manilla) Road, again: SENTRY – st

Qualcuno ricorderà che quando morì Mark Shelton è poi partita la colletta globale per pagare il rientro della salma alla famiglia. Nessun dubbio sull’onestà della raccolta di beneficienza, nemmeno di questi tempi. Era solo per dire che certo Shelton non s’è arricchito, manco per niente. E chi suonava con lui credo anche meno. Ora, i tre superstiti dell’ultima formazione hanno deciso di proseguire la loro strada, perché la strada dei Manilla Road era stata anche la loro per un po’, in fin dei conti. Ovvio, raccogliendo a bordo un altro chitarrista. Perché lo faranno? Per soldi? Da escludere. Lo abbiamo già visto, se non ci si arricchiva con la band madre, figuriamoci. Per l’esposizione e la visibilità? Lo escludo, perché non si sono mica dati un nome tipo “The True Manilla Road”, ma nemmeno un “Crystal Logic”, che sarebbe stata comunque una scemenza visto che nessuno dei coinvolti c’era. No, si sono messi come nome il generico Sentry, lode a loro, che sfido a ricollegare immediatamente alla gloria passata del glorioso marchio e che persino sui motori di ricerca non è facile di trovare.

E quindi lo farebbero per la Gloria? È questa la mia teoria. La Gloria del metallo epico e delle storie in cui dei barbari sudati armeggiano spadoni che comunque nulla possono contro le insidie di maghi e visir, contro cui possono opporsi solo con la fede negli dei e i muscoli e i nervi d’acciaio e il coraggio incosciente. Un po’ la vita di tutti i giorni. No, tutti i giorni la vita è un po’ peggio di così (non proseguo che poi mi sgridano), anche perché non ci sono più i Manilla Road, per cui ben venga questa nuova band chiamata Sentry. Che a dire il vero suona parecchio come vi aspettate che suoni, anche se il nome, giustamente, rispettosamente, è cambiato. E dato che ora al microfono c’è solo Bryan Patrick si capisce meglio, growl a parte, quando a cantare era Shelton e non lui, visto che il tono un po’ si assomigliava e a volte ci si poteva confondere. Ci sono quindi pure Neudi alla batteria e Phil Ross al basso, l’ultimissima sessione ritmica, a suonare esattamente allo stesso modo di prima, dell’unico disco in cui avevano suonato tutti e tre assieme, To Kill a King. Ci mancherebbe. Loro due sappiamo che sono anche in formazione con gli Ironsword, gruppo fotocopia dei Manilla Road, con cui Patrick ha pure collaborato, in precedenza. Strano non abbiano fatto due più due, ma a noi va bene perché di band Custodi del Fuoco Sacro ne abbiamo due invece di una. Alla chitarra qui quindi il germanico Eric “Kalli” Kaldschmidt. Fa il suo, non esce dal seminato, resta “in stile” senza eccedere in manierismo. Non poteva forse fare diversamente.

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Insomma, Sentry, il disco, è buono e non è un capolavoro. Viene meno un Poeta e non puoi aspettarti altrettanta profondità da chi lo supportava. Ma è un buon disco, tutto, come vi aspettate, basato su alternanza di brani più duri, meno duri, malinconici, eroici. Brani buoni. Alcuni più coinvolgenti di altri. Toccante l’ultima, Funeral, facile immaginare a chi sia dedicata. Tributo sincero, mesto. Energica all’inizio invece The Haunting. Sognante Heavensent. Tutte basate su canovacci già sentiti, ma che risentiamo con piacere. Almeno io. Provando a mettere da parte l’ombra dello Squalo (è dura, non solo per l’effetto di già sentito), questa band qui ha messo insieme quarantacinque minuti di buona musica, di Metallo antico, vecchia maniera, fuori moda, fiero, zero appeal commerciale. Zero speranza di arricchircisi, o di guadagnarci visibilità. Se va bene qualche slot in qualche festival dove si ricordano degli amici. Non sta nemmeno su Spotify. Sa di disco fatto innanzi tutto per sé stessi, poi per quella manciata sparuta di persone in giro per il mondo a cui già può interessare. No lyric video. Copertina semplice, un teschio, un corvo, un bosco, la luna, un oscuro palazzo sullo sfondo. L’ha fatta Paolo Girardi, che immagino ci tenesse anche lui a partecipare a questo pezzo di percorso in più. (Lorenzo Centini)

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