Avere vent’anni: NECRODEATH – Ton(e)s of Hate
Ton(e)s of Hate è l’album in cui riesco a godermi appieno il suono della batteria di Peso. Potrei menzionare in proposito anche Project One e Above the Light ed ecco che usciremmo, in senso stretto, dal campo da gioco dei Necrodeath. Il che è assurdo, perché Peso ha suonato poco con queste band e una vita con la celebrata band ligure, dove però ha tenuto in vetrina un suono spesso stirato o troppo prodotto, a discapito delle tanto chiacchierate dinamiche.
Ton(e)s of Hate uscì nel 2003 al culmine della popolarità dei Necrodeath. Mater of all Evil era stato un fulmine a ciel sereno; Black as Pitch, pur bello, non ne ripeteva la qualità ma piacque da matti. Non a me nello specifico, ma a tutti gli altri sì. Si trattava di non ripetersi sulla falsariga del predecessore, e i Necrodeath scelsero di rivoluzionare in primis i suoni: bidonarono Pelle Saether e il fido ingegnere Lars Linden e restarono, stavolta, entro i confini nazionali. La “fidelizzazione” era saltata, giacché Flegias aveva da poco portato agli Underground Studios di Vasteras, in Svezia, anche gli Opera IX per The Black Opera. Toccò agli Outer Sound Studios di Giuseppe Orlando, batterista e fratello minore di Carmelo. Si sta naturalmente parlando dei Novembre, e Carmelo ebbe persino un cameo in Bloodstain Pattern.

Prodotto da un batterista, Ton(e)s of Hate diede al gruppo nuova vita da un punto di vista squisitamente sonoro. Peso non fu il solo a beneficiarne ma fu quello che ne trasse il maggiore vantaggio. Sarò sincero: il sodalizio dei Necrodeath con Giuseppe Orlando si sarebbe protratto per molti anni e i suoni di 100% Hell sarebbero stati anche migliori ma quello che provo per il suono di Ton(e)s of Hate è un qualcosa di speciale che va oltre i pezzi in scaletta.
Quanto a questi ultimi, è stato detto e ridetto alla sua uscita che l’album suonasse eccessivamente moderno e che il confronto con Black as Pitch fosse impietoso. Il responso delle recensioni fu perlopiù tiepido, con anche qualche rara stroncatura; io stesso mi rifiutai di scriverne su MetalManiacs poiché ero talmente affezionato ai liguri da non sentirmela di infierire. E, sulle prime, Ton(e)s of Hate non mi piacque per niente a partire dal giochino di parole nel titolo: se ne occupò un tale che ne parlò generalmente malissimo ma poi nel voto indicò un 6,5. Non ho mai compreso il senso dei voti nelle recensioni e mai lo comprenderò.
L’inferno onnipresente in Black as Pitch qui non aleggiava, si diceva. C’è da eccepire su questo generalizzato punto di vista. Come Fragments of Insanity non era minimamente paragonabile a Into the Macabre in termini di cattiveria, nemmeno Black as Pitch lo era a Mater of all Evil. Lo erano momenti come Process of Violation e il clamoroso crescendo alla Slayer di Red as Blood ma non l’album nella sua totalità, nella sua anima ed essenza. La cattiveria di Mater of all Evil era quella di un gruppo carico a pallettoni che ritornava sui palchi volgendo lo sguardo alla sua fama passata. E l’occhio era puntato a Into the Macabre in un certo senso, come dimostrò il fatto che, in sede live, molti dei classici del secondo album sarebbero stati recuperati solo nelle annate future. La scaletta dei Necrodeath con Claudio alla chitarra, in prima battuta, era intrisa di Into the Macabre. Era il punto di riferimento totale, e, con tutta quell’energia addosso, era inevitabile che il disco di ritorno uscisse più nero della pece rispetto a quanto dichiarato a caratteri cubitali dal suo successore.
Da Black as Pitch i Necrodeath tornano a piccoli passi a essere un gruppo thrash metal, il che alternerà, in futuro, l’accentuata struttura ritmica di Ton(e)s of Hate alla melodia e alla linearità di 100% Hell, e poi alla modernità di Phylogenesis e Idiosyncrasy, senza mai costringere il processo di composizione verso un estremismo forzato. Ton(e)s of Hate è infarcito di cliché tipici del thrash metal anni Novanta: il basso in bell’evidenza quasi a suonare la carica; i pattern semplici e funzionali della batteria; i ritornelli che assumono una dimensione quasi cantabile, come in Last Ton(e)s of Hate: un fattore che godrà di ancor più importanza in 100% Hell.
I pezzi non mancavano, come più volte detto all’uscita. Perseverance Pays era bella, The Mark of Dr. Z pure; Bloodstain Pattern mostrava una cura degli arrangiamenti mai sentita prima d’allora, e che sarebbe ricomparsa, più in là, in Idiosyncrasy e nell’ultimo Singin’ in the Pain. Un cenno anche a Petition for Mercy, sana bordata di violentissimo thrash metal, e a Evidence From Beyond, il prototipo di pezzo alla Master of Morphine e Triumph of Pain per far rifiatare un po’ tutti sul palco e acchiappare qualche tipologia di fan in più. Pollice giù per The Flag, riedizione del classico per antonomasia in apertura a Into the Macabre, con un taglio troppo moderno e una batteria stavolta troppo invadente. Avevo nettamente preferito il rifacimento di Eucharistical Sacrifice, uscito due anni prima a titolo Sacrifice 2k1.
Un disco sottovalutato a cui avevo pensato di dedicare una puntata della rubrica Il Confessionale, ma il ventennale era così vicino da dover solo attendere ancora un po’. (Marco Belardi)

