Avere vent’anni: PARAGON – The Dark Legacy
Per anni abbiamo goduto d’interi filoni musicali affidati a un singolo produttore che s’inventava di sana pianta un suono e faceva tabula rasa della concorrenza. Andavano tutti da lui, si trattasse dei Morrisound o di Ross Robinson, o, in un’ottica più recente, di Peter Tagtgren e dei suoi Abyss Studios. Nel tempo questo fenomeno, interessante o disturbante che fosse, è andato lentamente a scomparire.
Così, fra un Anssi Kippo e un Andy Sneap, tanto per racimolare nomi alla lettera A, si è giunti al 2003 e a un produttore forse poco chiacchierato, Piet Sielck degli Iron Savior.
Già in studio di registrazione per ricoprire svariati ruoli lungo i Novanta, Piet Sielck lavorò coi primi Blind Guardian e coi Grave Digger dell’acclamato ritorno in auge, e fu collaboratore di lunga data con Kai Hansen nei Gamma Ray e nelle primordiali incarnazioni degli Helloween. Produsse gli Stormhammer, e, naturalmente, produsse ogni album dei suoi Iron Savior. I quali, sarò sincero, mi hanno rotto il cazzo un po’ subito, diciamo due/tre anni dopo l’acclamato Unification.
I Paragon posso riassumerli in linea di massima così: copertine tamarre, al confine con l’indecenza; una dittatura da parte del chitarrista e fondatore Martin Christian, che all’epoca di The Dark Legacy era all’incredibile record di cinque album consecutivi con la stessa formazione; e Claudius Cremer, l’altro chitarrista, cacciato subito dopo la pubblicazione del titolo in oggetto per riavviare una tradizione oggi assodata.
Non solo, i Paragon erano anche il gruppo che svoltò passando su Remedy, etichetta, fra gli altri, dei simpaticissimi Stormwarrior e che in Italia era distribuita da Self. Erano parte di quel movimento power metal in controtendenza alla melodia, all’orchestralità, alla complessità e alla tracotanza oggi barocca, domani neoclassica e chi più ne ha più ne metta, del periodo appena concluso. Certi gruppi, trainati in un certo senso dai Grave Digger, la cui presunta svolta power metal aveva assunto le sembianze di Excalibur, tiravano diritto come muli con la doppia cassa a elicottero e i riff che spesso mettevano un piede, o anche entrambi, nello speed metal. E se rallentavano lo facevano nell’accezione Balls to the Wall, e cioè assumendo la forma di pesanti macigni che scendono giù lentamente triturando tutto quel che incontrano. Niente Hunting High & Low, amici, solo dura pietra e metallo elegantemente forgiato.
Non che mi ricordassi una singola canzone dei Paragon, altrimenti sarei un disonesto nell’affermarlo, ma il riascolto di The Dark Legacy, sesto album in una lista che oggi ne conta dodici, è stato a distanza di così tanto tempo un evento piacevole da ripetere. Il che mi ha fatto ripensare alla freddezza con cui li accolsi all’epoca, come se del power metal – in qualunque sua forma – fossi così pieno e saturo da non volerne quasi sapere.
Maestri nella creazione di ritornelli lo erano platealmente i Rage. Il problema era, semmai, che i Paragon alternarono Kay Carstens, una sorta di screamer svociato allo sbaraglio, all’ancora più rozzo ma determinatissimo Andreas Babuschkin, il cui cognome era tanto discutibile quanto i suoi tentativi d’instaurare una qualche parvenza di stile eclettico alla Chris Boltendahl. Andreas, se devo dirla tutta, rendeva solamente sui toni medio-bassi puliti, stesse circostanze in cui ho sempre trovato esaltante ed estremamente efficace e furbo Udo Dirkschneider. Ascoltate per esempio Breaking Glass o Into the Black. Eppure ho sempre preferito le loro sparate scriteriate alla Black Hole, una sorta di Sent by the Devil o Fight the Fight della situazione.
Buon disco di una formazione in apparente stato di grazia, senza più i suoni taglienti degli esordi, sostituiti nell’occasione da un assetto più corposo e consono alle richieste di quel periodo. Per quanto già ingiustamente li snobbassi all’epoca, persero in seguito quell’attenzione che inizialmente fu rivolta al filone – tutto più o meno originario della crucconia – e la causa fu con tutta probabilità il crollo verticale delle locomotive che trainavano tutte quante le carrozze. I Rage, più melodici e impostati e in rapido calo dopo Soundchaser, e quei Grave Digger che a partire dall’album omonimo furono messi fortemente in discussione. (Marco Belardi)


