From the dark past: PATRICK RONDAT – Amphibia
Buttate quattro secondi a cercare il nome Patrick Rondat su Google. Del chitarrista francese esce fuori poco e niente. Va bene, va bene: è stato il chitarrista degli Elegy. Band letteralmente scomparsa, nel senso che non si sa nemmeno se si sono sciolti o no (“on hold”, direbbe la signora Encyclopedia Metallum, che sa tanto d’infinito). Ha collaborato con Jean-Michel Jarre tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, durante i quali (ci sono le prove) sfoggiava un taglio di capelli agghiacciante stile mullet che anche il redneck più alla moda degli Stati Uniti gli deve aver invidiato. Ha partecipato a un G3. Ha suonato con Michel Petrucciani e con Didier Lockwood, violinista dei leggendari Magma. Tutto bello: l’ultimo aggiornamento riscontrabile sul suo sito online – la cui grafica terrificante mi ricorda il 2001, epoca in cui a malapena sapevo scrivere in italiano e rubavo stringhe di codice e template Flash per costruire il mio pidocchioso account Myspace – ci mette al corrente di una prossima serata live a cui parteciperà. Sarà il 13 di marzo 2020, oggi è il 7 marzo 2023, quindi spicciatevi a prenotare. L’ultimo disco in cui ha suonato è una collaborazione con il pianista Hervé N’Kaoua, il cui originalissimo titolo è Hervé N’Kaoua & Patrick Rondat, lavoro che rivisita brani della tradizione classica occidentale, fondamentalmente sonate per pianoforte e violino e alcuni brani orchestrali riarrangiati . È uscito nel 2009.
Non è che il buon Patrick si sia troppo impegnato negli ultimi annetti, almeno dal punto di vista delle uscite discografiche e dei live. Si sarà dedicato alla nobilissima arte docente – e non è ironia, in questo siamo colleghi, seppur in campi diversi – dato che proprio alla didattica chitarristica il nostro ha dedicato alcuni metodi (anche video).
Perché scrivere di Amphibia, allora? Le risposte sono molte, ma tutte molto semplici. Tanto per cominciare, ha la copertina più bella dell’intera discografia di Rondat – merito semplice, dato che in generale il nostro ha affidato la curatela grafica dei suoi lavori a un esperto di Windows 95 Paintbrush in possesso dello stesso gusto estetico di Cagatone Joe. Non so perché, ma mi ha sempre attirato ‘sto ranocchio con la testa da omino di marzapane, con ‘sto mezzo sorriso sghembo, con gl’occhi dissimili, nero a bordo bianco e stampato su un fondo rossissimo. L’ho trovato d’impatto la primissima volta che vidi il disco. La prima edizione è del 1996, e, nonostante l’abbia scoperto solo nel 1998 grazie alla reissue della Limb Music con la copertina lievemente differente, la prima copertina è stata uno dei motivi che mi ha attirato a comprarlo. Seconda risposta: anche se Richard Benson a Ottava nota e Cocktail Micidiale, recensendo qualcosa di Rondat, ne ha tessuto le lodi, non si è dedicato – per quanto io ricordi – proprio ad Amphibia che, a mio modo di vedere, è il suo lavoro migliore. Ultimo, ma non ultimo, questo è veramente un gran bel disco, e semisconosciuto per di più.
Partiamo subito con il dire che il nome Patrick Rondat è stato sempre immediatamente collegato al concetto di “virtuoso della chitarra”, quindi erede di gente come Steve Vai, Joe Satriani, Yngwie Malmsteen eccetera eccetera. Del resto se non fosse stato così non sarebbe stato preso in considerazione dal fu Richard Philip Henry John B., attento soprattutto alle novità gustose di quel sottobosco. Bene, quella musica è, a parte alcune eccezioni rarissime, per il sottoscritto francamente inascoltabile. Pur riconoscendo il valore dei musicisti, come esecutori specialmente, non riesco per niente ad apprezzare gli sforzi degli stessi in qualità di compositori. Posso anche riconoscerne l’impatto nel mondo musicale, l’ispirazione per tanti giovani chitarristi che grazie a loro si avvicinano per la prima volta allo strumento. Non solo riconoscerlo, ma anche comprenderlo: la tamarraggine di Malmsteen, che sul disco è insopportabile, dal vivo è qualcosa di miracoloso che bisognerebbe vedere almeno una volta nella vita e alle volte lo riesce a trasformare addirittura in una persona simpatica. Ma non chiedetemi di ascoltarne un disco. Soprattutto non intero. L’ho fatto. Tutti hanno le loro perversioni. L’ho fatto. Ma dopo una serie di conversazioni con il mio cane siamo arrivati alla conclusione che sia più divertente e appagante aspettare alla fermata di Tor Bella Monaca il bus 423, che regolarmente non arriva mai. Ognuno ha i suoi difetti, per me i grandissimi chitarristi sono altri.
Ma togliamo quindi di mezzo questo primo grande fraintendimento. Patrick Rondat sarà anche un grande shredder, ma Amphibia non è un disco di shredding. Patrick Rondat sarà anche un virtuoso della chitarra, ma Amphibia non è un disco di virtuosismi chitarristici, pur offrendone. Patrick Rondat sarà anche un fulmine sui tasti, ma Amphibia non è un disco dove la velocità sia la principale preoccupazione dei musicisti.
A proposito dei musicisti: accanto a Rondat troviamo Patrice Guers, dai più conosciuto come membro dei Rhapsody e poi dei Rhapsody (sic.), Phil Woindrich alle tastiere e Tommy Aldridge alla batteria, noto soprattutto per la militanza negli Whitesnake, nei Motorhead e nella banda di Ozzy.
Molto bene. A chi piacerà Amphibia? Se andate per etichette, probabilmente piacerà soprattutto a chi mastica progressive, ma le influenze musicali nelle composizioni di Rondat sono molto varie, quindi consiglio l’ascolto a tutti coloro che leggono. I vostri 9.90 euro mensili per Spotify li avete già spesi, quindi di grano non ne dovete scucire. Il disco si compone di dodici brani, di cui i primi sei sono altrettante parti di una unica suite che dà il titolo al disco. Ogni brano è interamente strumentale.
Tutte le composizioni sono mano del nostro, eccezione fatta per Vivaldi tribute, che è un riarrangiamento per chitarra elettrica del terzo movimento (Presto) del noto Concerto per violino e archi in Sol minore, RV 315 (“L’Estate”) delle Quattro stagioni di Vivaldi, e Equinoxe IV, brano di chiusura scritto da Jean-Michel Jarre che è anche il produttore del disco.
La suite Amphibia, che inaugura il disco, dura poco meno di mezz’ora. La prima parte si apre con un bel tappeto di tastiera che d’improvviso lascia spazio a un breve riff di chitarra elettrica e al successivo arpeggio di chitarra acustica. Già dalle prime note si nota che il materiale è splendidamente registrato e missato, e valorizza ogni timbro degli strumenti. L’estro di Rondat emerge non tanto dalle brevissime parti in shredding che sporadicamente appaiono già in questa prima parte, ma soprattutto nel gusto musicale, nel saper scegliere adeguatamente non solo lo sviluppo del brano ma anche dosare abilità esecutiva ed intelligenza compositiva, cosa che andrebbe veramente valorizzata. L’atmosfera particolarmente rock – ma con evidenti prestiti dal blues – che termina in assolo chiude la prima parte e inaugura la seconda con un riff di chitarra semplice ma straordinariamente efficace, accompagnato da basso, batteria e tastiere, sul quale poi si costruisce il fraseggio solistico di Rondat. Anche in questo caso il missaggio è semplicemente perfetto perché la linea melodica della chitarra solista, sebbene posto in risalto, non oscura per niente le dinamiche degli altri strumenti.
Come da tradizione progressive, è durante questa prima sezione della seconda parte che emerge quello che chiamerei il leitmotiv di Amphibia, una sezione melodica che riapparirà anche in seguito in altre parti della medesima suite. In questo caso non ascoltiamo solamente un tema bello, ma anche commovente, al termine del quale Rondat da sfoggio ulteriore della sua qualità esecutiva anche nelle plettrate più veloci. È difficile dire quale sia la parte più bella di questa suite, molto ben bilanciata, ma a circa metà della seconda parte s’incontra – almeno a parere di chi scrive – una delle progressioni ritmiche più belle dell’intero disco.
La canzone rallenta, la sequenza di accordi sembra chiudere il brano e invece è solamente una sezione di raccordo per inaugurare un ulteriore riff. Il primo giro, con tastiere, è per rodare il ritmo, sul secondo si sovrappone la linea melodica della chitarra solista, che trascina la seconda parte verso la fine accompagnandosi a un terzo riff. Sono i buoni vecchi 4/4. Batteria e tastiera chiudono. Si apre la terza parte al suono delle tastiere, che richiamano le atmosfere sonore dei lavori del recentemente scomparso Klaus Schulze, al di sopra delle quali lavora Rondat. È un pezzo lento, che flirta con le tonalità già sentite nelle due parti precedenti. Le note alte, con leggero delay, ci accompagnano in uno degli assoli forse più melanconici del disco. La quarta parte è più energica e si apre proponendoci un ulteriore riff di chitarra, più martellante, sul quale poi si innesta una breve parte in basso slappato. Come da copione, anche su questa sezione ritmica ricamerà poi Rondat. Ma, anche in questo caso, più che la velocità è la perizia nel proporre linee melodiche semplici ma efficaci il pregio migliore di Rondat.
Se il sapore del brano, al principio, è più influenzato da stilemi ritmici e tonici, che riprende poi verso la sezione finale, l’intera parte centrale è dominata in realtà da un lungo assolo più attinente però a panorami hard rock. La quinta parte di Amphibia è quella dove gli strumenti acustici trovano di più il loro spazio, sino ad ora quasi completamente dominato da quelli elettrici. Anche nel caso della chitarra acustica, la perizia e la precisione esecutiva non sono oggetto di possibile critica negativa. Anche in questa quinta parte, e poi nella sesta, il tema principale di Amphibia riaffiora, ma sempre in modi nuovi e quindi piacevoli da ascoltare. Per nulla forzati. La sesta parte, che chiude la suite, è l’ulteriore riprova di quanto sino ad ora scritto, ed ascoltato. Poche note, ben suonate e ben concepite in una struttura musicale mid-tempo che riesce a valorizzare la voce di ogni strumento. Il legato della chitarra solista rimanda alla musica classica occidentale, senza sfociare in soluzioni banali e di pessimo gusto. Al contrario, l’assolo della seconda parte del brano è uno dei migliori dell’intero disco, con vette esecutive veramente pregevoli.
La seconda parte del disco ha praticamente la stessa durata della suite d’apertura. Si apre con Camouflage, dal piglio decisamente rock. Buoni cambi di tempo scandiscono l’intero brano, che si svolge in una serie di riff molto ben concepiti e un groove che involucra tutti gli strumenti. Di Vivaldi tribute è inutile parlare, diciamo solamente che è un buon arrangiamento del concerto di Vivaldi – quindi a priori inattaccabile – suonato con la solita perizia. Dreamstreet riprende il discorso dove lo avevamo lasciato con Camouflage. Forse, esagerando un po’, si potrebbe dire che, se la prima parte del disco si avvicina di più a certo progressive rock strumentale, la seconda e più vicina ai territori più tradizionali del rock ‘n roll e dell’hard rock, lasciando quindi presagire che il virtuosismo di cui è capace Rondat non venga da quest’ultimo elevato a cardine della sua musica, ma che al contrario sia solamente uno strumento in più – tra i tanti – per raggiungere l’effetto desiderato: scrivere una bella canzone. In certi passaggi le canzoni di questa seconda parte mi sembrano ricordare quasi alcuni brani della carriera solista di Bruce Dickinson, paradossalmente senza la voce, come accade in Backhand i cui pregi maggiori sono proprio l’estro chitarristico per eseguire la sezione ritmica e l’efficacissima semplicità della sua struttura.
Amphibia è un disco che merita di essere ascoltato, anche perché criminalmente sottovalutato. Una piccola gemma nascosta di un ottimo musicista che non si limita ad essere uno straordinario esecutore e cura ogni dettaglio della sua proposta. (Bortolo da Sassoferrato)






Gran disco.
E decisamente poco conosciuto.
Concordo su ogni riga dell’articolo.
Chissà che fine ha fatto il nostro…
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da quel che leggo, gli Elegy si sarebbero riattivati, ma senza di lui
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È notizia non troppo recente di una reunion e tour col rientro dei due chitarristi storici Gilbert Pot e Henk Van der Laars.
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