È arrivato l’arrotino: METAL CHURCH – Congregation of Annihilation
Prima scrivere una recensione era relativamente facile, perché i gruppi tendevano a evolversi, mossi dalla propria inclinazione o, più semplicemente, dai soldi. Oggi rischi di scrivere sempre le stesse cose, perché chi proviene dagli anni Ottanta, e i Metal Church da lì provengono, ha ormai trovato una formula a rischio zero e ha deciso di non spostarsi d’una virgola. Per cui io, che ho già recensito Damned if you Do poco tempo addietro, che devo dirvi oggi? Buone notizie purtroppo non ne ho, ma ne ho di cattive.
La prima è che abbiamo perduto anche Kirk Arrington, loro batterista dagli esordi sino al ritorno con Ronny Munroe alla voce. E fanno tre fra le fila dei Metal Church, dopo David Wayne e la ferita ancor aperta di Mike Howe. La seconda è che sono riusciti a convincere un tale di nome Marc Lopes, già cantante di Ross The Boss, spiegandogli con molta pacatezza che stare al microfono nei Metal Church comporta meno rischi che lavorare nei pressi d’un altoforno.

Non girerò ulteriormente il coltello nella piaga: Congregation of Annihilation sembra un titolo dei Testament, e il nuovo cantante non assomiglia né a David Wayne né all’impareggiabile Mike Howe. Direi piuttosto che si è optato per una democristiana via di mezzo fra aggressività e tecnica. Mi direte voi: anche Mike Howe lo era. E mi toccherà rispondere che Mike Howe, a mio parere il miglior cantante dei Metal Church, aveva una classe sopraffina che questo qua si sogna.
L’album vanta – o soffre – la stessa varietà di fondo che caratterizzava i precedenti, e allora mi sono domandato il perché di codesta scelta. Molto semplice: quando ti trovi alla tredicesima pubblicazione, ossia alla frutta, l’unica soluzione è variare un tantino la proposta. Altrimenti tu un disco coeso e che suoni decentemente non l’otterrai mai. Variando la proposta ti rompi meno le palle a comporre roba che non esce più come un tempo, e chi l’ascolta vivrà quei quaranta o cinquanta minuti di musica come tali, e non come un Cammino di Santiago senza la borraccia nello zaino.
Abitudine fissa di questi attempati signori sulla sessantina, che si chiamino Accept, Anvil, o, giunti alla lettera M, Metal Church, è l’inserimento del pezzo orientato all’hard rock. Ormai lo fanno un po’ tutti ed è su questo aspetto che mi soffermerò. Congregation of Annihilation parte a cannone con ritmi serratissimi, gli acuti lancinanti di Marc Lopes chiamato a dimostrare nel minor tempo possibile che non è un rincalzo né uno scemo, riffoni ai confini col thrash. In alcune parti è come se ci sentissi l’ombra di Jeff Waters a tecnica e shredding ridotti. I primi due pezzi onestamente non mi dicono niente, molto male per un biglietto da visita. È con la terza traccia Pick a God and Prey che le cose migliorano più che sensibilmente.

“Se la vostra cucina fa fumo, Marc Lopes toglie il fumo dalla vostra cucina a gas.”
Al centro, dopo un inqualificabile titolo di merda come Me the Nothing, troviamo il trio salvafaccia, composto da Making Monsters, Say a Prayer with Seven Bullets, un hard & heavy orientato nelle ritmiche ai Megadeth di metà Novanta, e These Violent Thrills, poderoso hard rock che esalta la bontà della produzione del disco. Produzione che non è di chissà quale livello. Quanti quattrini avranno da investire i Metal Church in una produzione nel 2023? Un indizio: se n’è occupato Kurt Vanderhoof in persona, presumibilmente in salotto.
Eppure si esaltano egregiamente le dinamiche degli strumenti, c’è un basso bello pulsante e persino la batteria (lo strumento di merda per antonomasia degli anni Duemila, fra trigger, compressione, midi e puttanate varie) riesce a non sfigurare affatto. Le chitarre nel privilegiare la sezione ritmica hanno però dovuto rinunciare a qualcosa, è la solita storia della coperta corta.
Premesso che preferisco i Metal Church senza Kurt Vanderhoof, ovvero negli anni di Blessing in Disguise e dei due album a seguire con Wells e Marshall alle chitarre, questo Congregation of Annihilation è il massimo che la Chiesa di Metallo può offrirci oggigiorno. Un onesto album di metal classico, aggressivo quanto occorre, con qualche puntatina speed/thrash alla Annihilator sparsa fra le composizioni e una vena hard rock che, man mano che il tempo scorre, assume sempre più la dimensione e le sembianze di un salvavita. Bene poter variare gli argomenti, ma se fate un altro album così sarò io ad averli finiti. (Marco Belardi)

Recensione perfetta.
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Voglio bene ai Metal Church e tale affetto mi spinge ogni volta a riprovarci.
Sto cantante è stucchevole, forzato, eccessivo, costantemente sopra le righe pure quando non serve. In altri termini rompe veramente er cazzo e non s’azzitta mai. Ragion per cui alla sesta, settima traccia e alla trentanovesima bestemmia ho lasciato perdere.
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Metalskunk si conferma l’immondezzaio del disagio. Ce ne vuole per non imbroccarne una nemmeno per sbaglio.
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A Ipercù, ammazza che palle oh. Argomenta perlomeno, così pari l’oracolo de Delfi (incazzato).
Comunque…c’era Will Shaw a piede libero. È il tizio che ha cantato sull’ultimo, bellissimo, album degli Heir Apparent (The View from Below, fatevi un favore, recuperatelo). Ed è un cantante con i controcazzi. Sarebbe stato perfetto per i Metal Church, perfetto.
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Sempre bello leggere i fanboy.
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Più che altro mi sembra che il sito sia un po’ troppo affollato di fanboy dementi ultimamente…
per quanto riguarda il disco, anche per me il cantante è bravo ma eccessivo, dopo un po’ frantuma le bolas. Musicalmente siamo sempre li d’altronde non sono gruppi cosi famosi da potersi permettere di evolvere senza perdere la fanbase di decerebrati che vorrebbero lo stesso disco per 30 anni di fila, oh bisogna pure campare in qualche modo!
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