La finestra sul porcile: Il sol dell’avvenire

Chi sono Giovanni, Nanni, Michele Apicella?

Non sono soltanto alter ego di Nanni Moretti, strumenti attraverso i quali condurre tutte sue nevrosi, idiosincrasie e i suoi grandi amori, ma personaggi che tracciano l’evoluzione di un certo tipo di Italia, e, in particolare, di un pensiero critico, etico (anche a livello cinematografico) e politico. Un pensiero netto e fieramente (grazie al cielo) schierato.

Moretti infatti non ha mai cercato di essere inclusivo e pur ammettendo, nel suo quattordicesimo lungometraggio, di fingere di non pensare al pubblico quando gira un film, è più che consapevole di non rivolgersi ad una platea universale: così in questa occasione opera una summa del suo pensiero e rivendica la sua posizione, la sua minoranza.

Ne Il Sol dell’Avvenire – titolo che riprende un verso di Fischia il Vento, noto canto partigiano ed inno della Brigata Garibaldi – Moretti, nella sua opera più libera da almeno trent’anni, si rimette al centro della scena interpretando Giovanni, un regista che sta girando un film ambientato nel quartiere romano del Quarticciolo, nel 1956. Ennio (Silvio Orlando) è il segretario della sezione locale del P.C.I. e, insieme a sua moglie Eva (Barbara Bobulova), si trova ad accogliere il circo Budavari (nome del pallanuotista militante tra le fila dell’Acireale in Palombella Rossa) di Budapest, proprio nei giorni in cui la capitale ungherese viene invasa dai carri armati sovietici. Un evento che metterà in crisi gli iscritti del partito, che attendono di conoscere la posizione di Togliatti, tra ortodossia e volontà di cambiamento.

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Una crisi che non traspare solo tra i personaggi del film ma anche sul set, funestato dalle nuove metodologie produttive e dagli “algoritmi” di Netflix, e che è anche presente nella vita privata di Giovanni, nei suoi rituali, nella sua idea di cinema e nella sua relazione con la moglie (Margherita Buy). Giovanni è immutabile nel tempo ed è un personaggio che racchiude in sé tutti i morettismi del passato: deve vedere Lola di Demy prima di iniziare a girare un film, non tollera determinate scarpe in una donna, non concepisce una visione compiaciuta della violenza nel cinema e non ha alcun interesse ad adeguarsi alle novità.

Ma Il Sol dell’Avvenire non è un mero e senile viale del tramonto di tormentoni storici: al contrario, la citazione in forma parodistica del passato rappresenta un modo per mettere in atto un’ennesima critica e autocritica di sé e di un certo tipo di Italia: immobile, ostinata, quasi ottusa.

Un mondo in cui certe idee non trovano più spazio, in cui certe nevrosi diventano tossiche e in cui il Michele/Nanni/Giovanni che ha attraversato decenni di storia italiana si avvia verso una tragica uscita di scena, coerente che con i toni funerei che hanno contraddistinto la produzione morettiana da La Stanza del Figlio a Tre Piani.

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Un’uscita più volte accennata e che qui sembra concretizzarsi: in Mia Madre il personaggio di Giovanni afferma espressamente di aver deciso di smetterla (in quel caso con il lavoro); il pontefice di Habemus Papam, nonostante il suo peregrinare e un rinfrancante confronto con la gente comune, decide di abbandonare i fedeli; Giovanni, il giudice di Tre Piani, rigoroso e inflessibile anche di fronte ai suoi affetti più stretti, preferisce eclissarsi fino a diventare una voce del passato in una segreteria telefonica, a scapito anche della felicità propria e dei suoi familiari.

Ma se nel finale di Tre Piani arriva, davvero all’improvviso, una speranza, ne Il Sol dell’Avvenire si assiste ad un netto rifiuto verso un ineluttabile crinale. E così le meravigliose e cinematografiche fughe mentali e oniriche di Giovanni che animano buona parte del film prendono il sopravvento e si concretizzano.

E con un tono straordinariamente leggero, con momenti di grande divertimento e altrettanti di sentita commozione, Moretti realizza il suo 8 ½, un film dichiaratamente ed esplicitamente felliniano, nostalgico e sì, anche senile, nel senso più nobile del termine. Come in una delle scene più belle del film e di tutto il suo cinema: quando, immaginando di girare un film su una coppia che attraversa i decenni sul sottofondo di tante canzoni italiane, Giovanni inserisce sé stesso nella scena e cerca di migliorare il suo passato e quindi la sua persona.

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Proprio nella sua volontà di miglioramento, nel suo desiderio recondito di essere diverso (anche se nessuno cambia veramente) e di fare un cinema che lo renda più felice (è sempre il momento di fare una commedia), Giovanni raggiunge un punto di non ritorno e non ci sta. Non vuole girare più scene brutte, anche se necessarie, non vuole accettare il peso del passato e, al coerente finale del suo film, preferisce il ricordo di un momento di spensieratezza sulle note di Voglio Vederti Danzare.

Non è un Moretti che torna sui suoi passi, ma un Moretti che guarda al passato con gli occhi e lo sguardo degli ultimi film e decide che, nonostante siano tante le cose che non funzionano, non è arrivato il momento di farsi da parte e con sentito slancio, non si adegua: a un futuro già scritto, a un presente che non lo soddisfa e financo alla storia. Perché tutto può essere diverso, e il cinema può cambiare anche ciò che è scolpito nella pietra e può renderlo migliore. Rivendicando con orgoglio le proprie idee che erano e restano giuste (io gridavo cose giuste), indipendentemente da quello che è accaduto nel corso dei decenni.

E proprio per questo, al contrario del sole funereo che chiude la vicenda di Michele Apicella in Palombella Rossa, questa volta Moretti decide di salutarci con una commovente utopia dal sapore testamentario, con una nota di positività inattesa e un altrettanto inatteso e toccante senso di comunità che traspare nell’ultima, meravigliosa, sequenza e nella didascalia finale.

Perché forse, anche se ancora non si scorge, e contrariamente ad ogni logica, prima o poi arriverà davvero il sol dell’avvenire. (L’Azzeccagarbugli)

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