Le birre, i cavalier, l’arme, gli spandex io canto: HELICON METAL FESTIVAL IV @Odessa Club, Varsavia – 15/16.03.2024

La quarta edizione dell’assolutamente imperdibile e promettentissimo Helicon Fest si annunciava tesa, per niente scontata e con possibili incognite e ostacoli all’orizzonte. Mateusz Drzewicz, signore e padrone della Ossuary Records, Helicon Promotions, nonché cantante degli Hellhaim, che quest’anno figuravano anche in scaletta, è un personaggio che merita la più grande stima e rispetto assoluto. Sono ormai anni che si spacca il culo per portare nel suo Paese band di culto e organizzare serate con gruppi della ormai fiorentissima scena NWOTHM locale, una delle migliori al mondo senza se e senza ma. Date uno sguardo ed un ascolto ai gruppi che compongono il roster della Ossuary e vi renderete conto.

Difficoltà in vista, dicevo. Nonostante il Nostro non possa godere di un budget stellare, nei vari anni è riuscito a portare sui palchi polacchi Atlantean Kodex, Venator, Smoulder, Helstar, Visigoth, Hitten e via discorrendo. Tutti nomi caldissimi nella scena odierna. Quello che chiedeva in cambio era di fare il numero maggiore di prevendite possibile per entrambe le date, così da non avere patemi d’animo di natura finanziaria, perchéè si sa che organizzare eventi costa ancora più caro oggigiorno, a maggior ragione se si ospitano nomi dall’estero.

Invece fino all’ultimo il numero dei partecipanti era incerto e, per un festival di recente costituzione che si deve creare una fama, questo rappresenta una incognita non da poco. Si è scoperto alla fine che molti aspettavano l’ultimo momento per comprare i biglietti, vista la brutta lezione imparata sulla scia della pandemia recente, non capendo che così facendo iniziano un circolo vizioso che finisce per strangolare il povero organizzatore che, purtroppo, non può contare su un grande capitale di partenza e non può permettersi di rimetterci più di tanto di tasca sua. E poi, parliamoci chiaro, sta cazzo di pandemia è bella che finita da un pezzo. Ma tralasciando le chiacchiere, come è andato l’Helicon Festival IV? Alla stragrande! Numerosi avventori hanno riempito la sala del locale, sito dietro le rotaie della stazione di Warszawa Zachodnia, venendo da un po’ tutta Europa e alcuni persino da Oltreoceano, facendo dissipare così le nubi scure all’orizzonte.

La prima giornata pareva la più solida, in virtù del fatto che poteva contare su praticamente due headliner, anche se i Visigoth saranno gli ultimi ad esibirsi, coi veterani di culto Trojan subito prima. Appena arrivo vedo subito grande movimento intorno ai numerosi banchetti della mercanzia, mi avvicino così a quello dei Trojan e ci becco il redivivo Pete Wadeson, tanica di birra in mano, già mezzo allegro e con il suo inconfondibile accentazzo da mancunian duro e puro. Gli chiedo se avessero portato una copia di Metallic Savage, in cui sono raccolti i due demo più altre tracce singole da lui registrate da solista durante la carriera con Trojan e Talion. All’inizio la richiesta mette un po’ in difficoltà il suo entourage ma poi, voilà, ecco che salta fuori una copia del suddetto Cd, completamente strumentale. A tutti voi chitarromani e fanatici di speed metal consiglio questo disco con tutto il cuore.

Iniziamo però con i COLTRE, provenienti da Londra, Regno Unito, ma di cui riconosco immediatamente il marcatissimo accento italico nelle interazioni col pubblico. Giovane band che basa il suo repertorio su di una NWOBHM d’annata, si esibisce in una sala non ancora del tutto piena ma già entusiasta. I suoni non sono proprio i migliori ed esibirsi alle cinque del pomeriggio non è mai il top assoluto, però i Nostri se ne fregano e danno tutto, lasciando un buon sapore in bocca e preparandoci all’avvento degli IRONBOUND, direttamente dal roster della Ossuary. I polacchi sono pesantemente ispirati dagli Iron Maiden dei tempi migliori, con un cantante spaventosamente simile a Blaze Bayley ma con un’estensione maggiore. Sono qua anche per promuovere il nuovo album Serpent’s Kiss. La formula maideniana rimane invariata, però è giusto dire che non si tratta di un mero “gruppo clone” e che qualche idea o spunto che va su un power/speed più personale ogni tanto si sente. Il cantante è bravo, ma forse ha bisogno di fare più esperienza sul palco. Ogni tanto c’è qualche sbavatura qua e là ma nulla che sminuisca il risultato finale, ovvero una esibizione davvero godibile con i giusti ingredienti: chitarre taglienti e ben armonizzate, cavalcate in stile Harris e tutta quella roba là.

Subito dopo però le cose iniziano a farsi più serie: la “band di casa”, ovvero gli HELLHAIM, inizia ad allestire i suoi teschi scenografici qua e là, ed ecco che si comincia. Se non li aveste mai sentiti, la loro è una bordata di speed metal spezzacollo che sfiora i limiti del thrash, con i due chitarristi in evidenza. Uno di loro, Albert Żółtowski, ha un passato in altre band dell’underground polacco fin dagli anni Novanta. Il signor Ossuary, ovvero Mateusz, ci mette l’anima ed è sempre potente con i suoi improvvisi acuti spaccatimpani. Gli Hellhaim sono navigatissimi e la loro è una esibizione che forse sposterà gli equilibri tra le due giornate in favore della prima, a conti fatti. C’è tempo anche per l’ospitata di ex membri e una chiusura trionfale davanti al loro pubblico.

Gli austriaci ROADWOLF danno subito una buona impressione, ma secondo me non tale da giustificare la loro posizione dopo gli Hellhaim. Il loro bassista, il paffuto e rubicondo Aigy, sorride e saltella avanti e indietro, su e giù, e il suo entusiasmo è contagioso e non si può non volergli bene. Il loro è un canonico heavy metal con tinte hard qua e là, ben eseguito e con buona tenuta del palco, ma non coinvolge, a parere del sottoscritto, come le bastonate date aggratis da chi li preceduti immediatamente. Un piccolo calo perdonabile.

Si continua però, e dopo ci sono i TROJAN, che hanno la peculiarità di avere ancora il cantante originale, ovvero il gigantesco Graeme Wyatt, due metri di uomo dall’apparenza che intimidisce, dal quale non ti aspetteresti mai una voce che ancora oggi, incredibile a dirsi, spacca i lampadari. Impressionante. Classici come Icehouse, Chasing the Storm, Only the Strong Survive e altre vengono eseguite senza alcuna difficoltà, con una limpidezza e delle tonalità davvero improbabili per una persona che ha tutti quegli anni di carriera dietro le spalle. Anche Pete Wadeson gigioneggia con una pulizia notevole e senza fare fatica alcuna, come un ragazzino. Il pubblico è giustamente in solluchero e devo dire che loro sono stati la ragione più convincente per me per comprare un biglietto che avrei comunque preso, anche per le ragioni spiegate in apertura. È tutto fantastico e finalmente mi vedo un gruppo che era un personale culto da decenni ormai.

Ma la chiusura, signori, è davvero epocale. Non ebbi mai modo di spiegarvi di persona cosa penso dei VISIGOTH, anche perché sono a grandi linee d’accordo con quanto detto da Barg qua, e secondo me dove il gruppo dello Utah pecca di più è nel fatto che le produzioni troppo rifinite e ripulite della loro discografia non rendono appieno il potenziale della marziale bellicosità (visto che bel nuovo aggettivo?) della loro musica. Dal vivo la patina viene via, e quello che rimane è un’orda di lanzichenecchi pronti a saccheggiare Roma ed impiccare il Papa con un cappio d’oro, come nell’immortale capolavoro di Ermanno Olmi. O di Visigoti, appunto, ma sempre con lo stesso intento scarsamente umanitario verso la Città Eterna.

Rimossi i lustrini, non si fa differenza tra pezzi del primo (che forse preferisco leggermente) o del secondo album, tutti suonano come degli inni di battaglia da cantare a squarciagola, in marcia ordinata e minacciosa, prima di squarciare quella del nemico, di gola. Silver and Steel, mostruosa, Traitor’s Gate, il momento emozionante in cui eseguono, annunciando il sentito tributo, Necropolis dei Manilla Road sono delle cariche che fanno esplodere il tetto, grazie anche al pubblico, ormai fuori controllo e completamente in balia di questo esercito di feroci mercenari che cantano inni di battaglia, in cui spicca, incredibile e limpidissima, la voce baritonale di Jake Rogers, che non perde un colpo manco per sbaglio ed è veramente molto espressiva. L’esibizione è fenomenale, tanto che mi dirigo di impulso al banchetto per comprare due dischi che fino al giorno prima non mi facevano impazzire, ma che oggi sentirò con orecchio diverso, quello stesso orecchio che ha assistito ad una esibizione epocale e lascia il locale con la consapevolezza che questo concerto rimarrà indelebilmente nei ricordi. Sarà dura da replicare, nel giorno successivo.

Il secondo giorno si apre con il primo cambiamento della scaletta, che sarebbe potuto essere un intoppo, ma che a conti fatti è persino un miglioramento, visto che i finlandesi Satan’s Fall saltano e al loro posto vengono chiamati gli SPECIES, techno-thrashers di Varsavia che vedo per la terza volta e che sanno assolutamente il fatto loro. Tra Coroner, Atheist, Tokix ed altri graditissimi nomi, le loro influenze li rendono fautori di un intricato thrash tecnico, appunto, che a tratti sfocia nella fusion e che contiene delle parti veramente incasinate, per le quali o hai dei suoni pressoché perfetti oppure puoi avere qualche problema di resa. Io ho anche il loro disco, To Find Deliverance, che vi consiglio caldamente, quindi conosco i pezzi piuttosto bene, avendolo sentito abbastanza regolarmente nell’ultimo anno. La loro esibizione è quella che gli ho visto fare altre volte, pressochè impeccabile tecnicamente, ma penalizzata dal fatto che sono i primi in scaletta e forse l’unica vera nota dissonante del cartellone, visto che tutto il roster è composto da gruppi heavy/power/epic e affini. Sarà la partecipazione ancora limitata o la poca accortezza dei suoni alla prima esibizione, tra l’altro confermata poco prima dell’inizio della kermesse, ma alla fine il pubblico in generale è contento, anche se questo trio avrebbe meritato di più. Sarà così sicuramente in altre occasioni. A me loro piacciono parecchio e ancora una volta vi consiglio di ascoltarli.

Chi segue però è il gruppo che, a conti fatti, avrebbe forse dovuto chiudere, ovvero gli inglesi TAILGUNNER, i quali, con volumi sfondatimpani e una verve da professionisti navigati (pur essendo alla vista poco più che ventenni) scodellano una scaletta di pezzi micidiali, tiratissimi e frenetici, conditi dalla voce fenomenale di Craig Cairns, che imperversa per tutta la durata dell’esibizione, estesa, potente e davvero impressionante. Ho poi avuto modo di sentire il loro disco dell’anno scorso, Guns For Hire, e devo dire che dal vivo sono pure meglio che su quel gioiellino che mi sono fatto scappare in serata, visto che dopo il concerto hanno venduto tutte le loro copie ad un pubblico assatanato e poi sono spariti, probabilmente verso la prossima data del loro tour. Recupererò senz’altro.

Ancora una volta un piccolo errore di posizionamento ci porta alla esibizione successiva, che avrei messo forse prima, tra gli Species, che erano un po’ dei pesci fuor d’acqua, e i sorprendenti Tailgunner, ovvero quella dei miei concittadini MONASTERIUM, da Cracovia. Se c’è una cosa che ho imparato dalla frequentazione di questo festival è che ci deve essere almeno un clone dei Candlemass all’anno. L’anno scorso toccò ai bravi Evangelist e quest’anno ai miei “vicini di casa”. Loro li vidi già diversi anni fa quando aprirono per i Belzebong in una serata movimentata, finita con schizzi di sangue sul muro del locale che li ospitava, per via di una rissa scoppiata all’improvviso tra gli avventori. Da allora hanno fatto uscire altri due album oltre a quello che conosco io. Il fatto che me li sia persi fa capire quanto i Monasterium rientrino tra i miei principali interessi. L’esibizione è piacevole però, ed è l’ideale per calmare la serata, con quei suoni cupi ma cadenzati, una voce clone di Messiah Marcolin e non tantissima fantasia in generale. Sono loro il vero e proprio gruppo cover della serata, non gli Ironbound, alla fine. È il momento ideale per rilassarsi con un paio di birre, anche perchè dopo essere andati in doppia cifra con le ore totali di metal urlato a tutto volume, un po’ di riposo ci vuole. Mi rifiuto di pensare che sia l’età del sottoscritto a causare questa condizione, e guardandomi in giro vedo che il sentimento è comune anche tra i più giovani.

Meno tre alla fine, dunque, e i canadesi IRON KINGDOM si presentano sul palco. Affianco a dove sto io, la minuta e carina chitarrista Megan Merrick prepara la pedaliera ed il microfono. Sarà infatti il gioco delle armonie vocali tra lei e il bassista/cantante Leighton Holmes la peculiarità su cui faranno affidamento questi Canadesi. Leighton Holmes, però, al netto dell’innegabile talento naturale e della voce ALTISSIMA, dà un po’ la sensazione di potenza non ancora del tutto sotto controllo, grazie a un vibrato insistente che contribuisce a far entrare la sua ugola direttamente nel cervello attraverso le orecchie, come una pugnalata. Dopo dodici ore di heavy metal a tutto volume ha il suo effetto. Coinvolgenti, ma la sensazione che vi ripeto è che al meglio della serata si sia già assistito.

Anche i MEGATON SWORD, svizzeri di cui il caro collega Centini ci aveva già parlato, potrebbero forse dare di più. La mia idea, sentendoli su disco, è che siano godibili, che abbiano tutto al punto giusto. La formula è quella tradizionale dell’epic metal, eppure dal vivo fanno esattamente la stessa cosa. Fanno il loro, senza picchi particolari, con uno dei cantanti forse meno degni di nota sentiti nelle due serate. Scorrono via. Ci bevo un’altra birra sopra. Va benissimo così.

Quando arriva il tempo dei GLACIER, tornati alla ribalta in maniera del tutto inaspettata a quasi quarant’anni dal loro omonimo Ep di culto, più di metà degli avventori ha il cervello in pappa, o almeno quelli che come me hanno presenziato alle due serate dall’inizio. Li vedo e riconosco i fratelli zombi. Forse è per questo che non riesco a godermi come dovrei gli americani, rifatti a nuovo con una abile formazione costruita attorno a Michael Podrybau, che tra l’altro è di origini polacche. La sensazione però non è la stessa che mi ha dato Graeme Wyatt il giorno prima, ovvero di brillantezza assoluta, e il buon Michael regge ma non strafà. I pezzi sono un mélange di nuovo e vecchio e la scaletta è decisamente lunga, come giusto che sia per ogni headliner, però a quel punto è l’una passata e non dico che sto implorando pietà, ma quasi.

Il giorno dopo andrò a vedere i Meshuggah a Cracovia e vi assicuro che, dopo il tour de force dell’Helicon, in quel locale da duemila posti e con quei suoni ultra-professionali mi sembrava di stare a casa ad ascoltare in relax dal mio impianto a medio volume. E stiamo parlando dei Meshuggah.

Ad ogni modo qua si chiude un’altra edizione di questo festival, che sta acquistando prestigio e ingrandendosi, ma che dà ancora non pochi grattacapi agli organizzatori, tra mille difficoltà e tanto, tantissimo lavoro. Il premio è però una sedia fatta delle ossa dei nemici del vero metallo, posizionata alla destra di Odino al grande banchetto. E al buon Mateusz Drzewicz quella non gliela leva nessuno. (Piero Tola)

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