Abbiamo visto Depeche Mode: M in anteprima
Ogni buon metallaro dovrebbe essersi confrontato con i Depeche Mode almeno una volta a un certo punto della sua vita. Quantomeno perché, se non deve esserci per forza entrato in fissa fino a rovinarsi la vita come Ciccio, se non ci è mai entrato in contatto significa che non ha mai ascoltato i Paradise Lost o nessuno di tutti quei gruppi che a un certo punto hanno riproposto loro cover, facendo dei Depeche Mode probabilmente il gruppo non metal più coverizzato di sempre da parte dei gruppi metal.
Io da parte mia mi incuriosii e cominciai ad ascoltarli e a recuperare i loro vecchi album dopo aver ascoltato proprio Host dei Paradise Lost, il disco che poi diede il nome al progetto parallelo di Holmes e Mackintosh e che più li tributa. Un disco che ho ascoltato a profusione ma che col senno di poi mi colpì principalmente per la sua atmosfera, poiché di bei pezzi alla fine ne aveva giusto due: la doppietta iniziale So Much is Lost e Nothing Sacred. Un disco che, oltre alla fascinazione per le sonorità più tipiche dei Depeche Mode, va letto anche alla luce del periodo che molte band metal stavano passando – basti pensare a chi con i Paradise Lost condivideva anche il sottogenere di appartenenza, ovvero Anathema e My Dying Bride – curiosamente, peraltro, anche dagli Anathema sono fuoriusciti un paio di progetti paralleli che hanno il nome di alcune loro opere. Un disco che forse era anche normale uscisse da un gruppo che condivideva la nazionalità con Depeche Mode, Eurythmics e Tears for Fears.
Anche per questi motivi, quando ci hanno invitati a vedere in anteprima il film Depeche Mode: M al Cinema Arcobaleno a Milano, non ci ho pensato su neanche troppo prima di accettare nonostante io abbia una relazione complicata con diverse categorie che in questo contesto si intrecciano, ovvero: le vecchie glorie, i loro album più recenti, i concerti molto grandi e i dischi dei live.
In merito alle vecchie glorie e agli album della coda della carriera è presto detto: una volta esaurite le cose da dire, per me è meglio che si ritirino. Lo penso anche di molti gruppi che pure apprezzo e ho apprezzato. L’ho pensato (e teorizzato) con i Phlebotomized, così come con i Metallica; e l’ho pensato anche dei Testament, nonostante Para bellum si lasci tutto sommato ascoltare – stessa casistica, peraltro, dei Black Sabbath. A questo punto, avrete capito, l’ho pensato anche con Memento Mori dei Depeche Mode che, per me, è stato un album totalmente trascurabile.
Sui grandi concerti non posso invece aggiungere molto a quanto detto dal Barg nel suo articolo sull’ultimo concerto proprio dei Metallica all’Ippodromo di Milano. Il desiderio di vedere grandi gruppi che si apprezzano è totalmente annullato dal fastidio di dover vedere da lontanissimo suddetti gruppi (che spesso e volentieri sono anche delle vecchie glorie che ripropongono pezzi dai loro ultimi album), magari pure per il tramite di un maxischermo e dopo aver speso quasi 200 € (altrimenti dette du’ piotte) come per il concerto degli Iron Maiden. Un’esperienza diluita provata in tutto e per tutto nell’ultimo concerto grande di una vecchia gloria a cui ho assistito, ovvero quello dei Red Hot Chili Peppers all’Ippodromo La Maura agli I-Days a Milano nel 2023: sentire dal vivo Me & My Friends mi ha sorpreso ed è stato piacevole, ma, tutto sommato, non ne è valsa la pena. Tutti motivi che non mi fecero prendere neanche in considerazione l’idea di andare a vedere i Depeche Mode dal vivo a Milano durante il tour di promozione di Memento Mori.
E, infine, per quanto riguarda i dischi dal vivo, ho sempre pensato che, un’esperienza simile dev’essere vissuta, per l’appunto, dal vivo, e che viverla tramite una registrazione non abbia molto senso, soprattutto se prevede soltanto registrazioni audio senza avere neanche una ripresa video. L’unico modo in cui posso personalmente concepire un’esperienza simile è se innanzitutto si parla di un DVD e non di un CD e se, magari, dopo essere stato a quel concerto, si decide di acquistarlo come sorta di ricordo.
Per fortuna Depeche Mode: M non si è rivelato nulla di tutto ciò. Non è infatti un semplice disco o DVD live di un grande concerto di una vecchia gloria. È sì composto da riprese dei tre concerti tenuti dal gruppo inglese a Città del Messico, ma il regista Fernando Frías ha saputo cambiare registro e proporre qualcosa che non fosse scontato e che non annoiasse.
Le riprese e le canzoni sono infatti intervallate da spezzoni di poesie e monologhi in spagnolo che seguono anche un certo filo conduttore. Si inizia, per esempio, con un discorso sulla fascinazione per la morte della cultura messicana, come a voler spiegare la fascinazione per le atmosfere oscure e morbose delle canzoni dei Depeche Mode e si prosegue poi con spezzoni di interviste ad alcuni fan che accorrono a vedere i loro beniamini. Anche qui, peraltro, il montaggio sapiente (primo piano con risposte in sovrapposizione) riesce a non far rallentare troppo il ritmo e a far mantenere alta la concentrazione.
Anche dal punto di vista musicale, per fortuna, le aspettative basse sono state smentite e, a parte un paio di tracce da Memento Mori, ovvero My Cosmos Is Mine (l’unica decente) e Speak to Me, tutte le altre canzoni riproposte erano soprattutto vecchi classici, da Stripped a Personal Jesus (lasciata come ultima), passando per Enjoy the Silence, Wrong e Never Let me Down Again, con un Dave Gahan che dimostra di essere ancora in grande forma nonostante tutto. E ho usato il verbo “riproporre” appositamente, poiché ho ragione di credere che sia stata fatta una selezione di canzoni – aggiungerei per fortuna, considerando che le tre date in questione facevano comunque parte del tour a supporto di Memento Mori, nel quale probabilmente venivano riproposte più di due canzoni, e che in questo modo si è riusciti ancora una volta a non rallentare troppo il ritmo. Durante i titoli di coda è stato infatti inserito qualche extra che non ha visto spazio nel film vero e proprio.
Insomma, Depeche Mode: M in realtà non è propriamente né un film, né un documentario, né un live e stranamente questa mancanza di identità gioca a suo favore. Fernando Frías è infatti riuscito a creare un’opera ibrida che, in quanto tale, non appartiene a nessuna delle categorie di cui pure fa sue alcune caratteristiche, ma ha una sua dignità a sé stante data dall’unicità di questo ibrido che lo rende pressoché irripetibile. (Edoardo)
